The Supreme Court rules on the limitation period for legal action in cases of discrimination damages and for denied benefits
La sentenza n. 25400 del 20 settembre 2021 della Suprema Corte, intervenendo sul tema prescrizione in ambito previdenziale, offre l’occasione per riflettere se l’oggetto dell’azione antidiscriminatoria sia unicamente il bene della vita originariamente negato oppure se un diritto diverso e più ampio, ossia quello a non essere discriminati. Contrariamente a quanto affermato dalla pronuncia in commento, l’Autore propende per la tesi dell’autonomia di tale diritto, circostanza che porta a ritenere non applicabili allo stesso termini prescrizionali di natura speciale come quelli propri del diritto previdenziale.
The decision n. 25400 of Sep. 20 2021 of the Italian Supreme Court, intervining on the subject of the applicable limitation periods in the field of social security, offers the opportunity to reflect on whether the object of anti-discriminatory action is only the good of life originally denied or whether a different and broader right, namely that of not being discriminated against. Contrary to what is stated in the judgment in question, the author makes an argument for the thesis of the autonomy of this right, which leads to the conclusion that special limitation periods, such as those of social security law, are not applicable to it.
In giurisprudenza si è da tempo consolidato l’orientamento secondo cui il pagamento dell’indennità di maternità alle assistenti di volo deve essere effettuato inserendo nella base di calcolo il valore integrale dell’indennità di volo percepita e non il solo 50% di detto valore, come sostenuto dall’Inps (che basa questa tesi sulla asserita analogia con la disciplina della indennità di malattia). La violazione di tale diritto costituisce un trattamento meno favorevole in ragione dello stato di gravidanza e di maternità e dunque una discriminazione vietata dall’art. 25, comma 2 bis, del Codice delle Pari opportunità.
Restava, tuttavia, aperto un secondo problema che, generatosi dal primo, è stato oggetto negli ultimi anni di interpretazioni opposte da parte dei giudici di merito: il rapporto, cioè, tra l’accertamento della discriminazione e gli eventuali limiti al suo rimedio, in particolare alla luce della possibile decorrenza della prescrizione.
La questione che si era posta, una volta accertata come discriminatoria la condotta dell’Inps, riguardava, in particolare, quale tipo di tutela fosse possibile riconoscere alle lavoratrici ricorrenti nel caso in cui le stesse avessero agito in giudizio oltre il termine prescrizionale di un anno stabilito dall’art. 6 L. 11.1.43 n. 138 per l’indennità di malattia, ma da estendersi pacificamente alla indennità di maternità per effetto del richiamo di cui all’art. 22, comma 2, D.Lgs. 26.3.2001 n.151.
Tale problema riguarda in sostanza la qualificazione della domanda e il suo oggetto effettivo: se, come sostenuto dalle ricorrenti, si tratta del diritto a non essere discriminate – e a quel punto il corretto pagamento della indennità di maternità sarebbe da qualificarsi come rimedio alla condotta discriminatoria, “astratto” dalle vicende specifiche della prestazione – oppure se si tratta del diritto alla prestazione, se pure azionato attraverso lo strumento dell’azione antidiscriminatoria.
È questo secondo orientamento che viene sposato dalla Suprema Corte nella sentenza 25400/2021, che ha rigettato la domanda delle lavoratrici ricorrenti, riformando la decisione della Corte d’Appello di Firenze che aveva invece respinto l’eccezione di prescrizione sollevata dall’Inps in ragione della diversa “natura e [del]l’oggetto della tutela azionata dalla lavoratrice con l’intervento della consigliera di parità”: secondo i giudici della Sezione Lavoro della Cassazione, infatti, tale tipo di domanda “sia pure fondata sulla discriminazione”, non mirerebbe ad altro che ad ottenere l’indennità richiesta nella misura di legge, “ragion per cui non può che soggiacere alle medesime regole che valgono per l’azione di adempimento di detta prestazione previdenziale”.
La decisione suscita non poche perplessità, soprattutto laddove la Corte richiama, a proprio sostegno, la tesi un po’ abusata della “discriminazione al contrario”, cioè del trattamento privilegiato che si troverebbe ad avere il soggetto discriminato (che fruirebbe di un termine di prescrizione più ampio) rispetto al lavoratore “normale”, soggetto al termine di prescrizione più breve previsto dalla legge per la specifica prestazione.
L’argomento sembra non considerare che, sul piano generale, il diritto antidiscriminatorio è volto appunto ad approntare un insieme di norme di sostegno per gruppi sociali che vengono ritenuti meritevoli di un trattamento specifico, in ragione proprio della loro “condizione di rischio” (si pensi ad es. alla predisposizione di strumenti processuali più favorevoli per il ricorrente che deduce la discriminazione e di cui non fruisce l’attore “ordinario”), sicché, la presunta “discriminazione al contrario” non è altro che la funzione propria del dritto antidiscriminatorio e il trattamento “più favorevole” a cui la donna discriminata in ragione della maternità potrebbe accedere altro non è se non la conseguenza della particolare tutela che l’ordinamento attribuisce alla condizione di madre.
In senso contrario alla tesi della Cassazione possono vedersi le sentenze della Corte d’Appello di Milano del 28 giugno 2021 e della Corte d’Appello di Torino del 18 maggio 2021.
Si veda anche Trib. Brescia n. 1556/2018 (confermata da Corte app. Brescia n. 315/2018) che ha ritenuto non applicabili i vincoli del previo procedimento amministrativo al caso di una prestazione Inps (il cd “bonus bebè”) richiesto a titolo di rimozione della dedotta discriminazione in ragione della nazionalità.
Marco Guerini, avvocato del foro di Milano