Un caso peculiare di discriminazione multifattoriale per opinioni personali e per genere
The profession of arms: conscientious objection, women and the local police – A peculiar case of multifactorial discrimination based on personal opinions and gender
Il contributo analizza l’ordinanza del 15 aprile 2022 pronunciata dal Tribunale di Ferrara sezione Lavoro, con la quale viene accolto il ricorso ex art. 28 d. lgs. 150/2011 con cui venivano fatte valere simultaneamente due distinte azioni relativamente all’obiezione di coscienza al porto ed uso dell’arma da parte di agenti di polizia. Esaminati i principali passaggi motivazionali della pronuncia, l’autrice si interroga infine sulle ricadute che potrebbe avere sulla nozione di discriminazione per opinioni personali, così come affermatasi nella giurisprudenza del giudice nazionale, la sentenza del 13 ottobre 2022 C-344/20 L. F. contro S.C.R.L. della Corte di Giustizia dell’Unione Europea, per la quale l’espressione religione o convinzioni personali contenuta nell’art. 1 della Direttiva 2000/78/CE costituisce un solo ed unico motivo di discriminazione, comprendente tanto le convinzioni religiose quanto le convinzioni filosofiche e spirituali.
The contribution analyses the ruling of 15 April 2022 of the Tribunal of Ferrara, Labour section, in which the application pursuant to art. 28 of legislative decree 150/2011 was upheld, with which two separate actions were brought simultaneously concerning conscientious objection to the carrying and use of weapons by police officers. Having examined the main motivational passages of the ruling, the author finally wonders about the repercussions that the judgment of 13 October 2022 C-344/20 L.F. v S.C.R.L. of the Court of Justice of the European Union, for which the expression religion or belief contained in Article 1 of Directive 2000/78/EC constitutes one and the same ground of discrimination, covering both religious beliefs and philosophical and spiritual convictions, might have on the notion of discrimination on grounds of personal opinion, as affirmed in the national case law.
- La vicenda.
Un’Organizzazione Sindacale territorialericorreva in giudizio con azione collettiva per l’accertamento del carattere discriminatorio della condotta adottata da un Comune nei confronti degli/ delle Agenti del Corpo di Polizia Locale obiettori di coscienza, ritenendo che venisse riservato loro un trattamento di particolare svantaggio rispetto al personale del Corpo di Polizia Locale in posizione analoga, in violazione dell’art.2 D. Lgs. n. 216/2003che vieta le discriminazioni in materia di occupazione e di condizioni di lavoro a causa delle proprie convinzioni personali. Ciò a seguito della decisione del Comune di armare l’intero Corpo per ogni tipo di servizio, senza prevedere alcuna modalità di manifestazione dell’obiezione al porto ed all’uso dell’arma. L’Organizzazione Sindacale chiedeva un ordine giudiziale di cessazione del comportamento pregiudizievole ed un piano di rimozione delle discriminazioni accertate. Con il medesimo atto ricorreva altresì un agente obiettore di coscienza con azione individuale, per chiedere l’accertamento del carattere discriminatorio e la cessazione del comportamento pregiudizievole assunto dal Comune nei suoi confronti, consistente nel suo allontanamento dai servizi esterni, con perdita della relativa indennità economica.
La controversia nasceva a seguito dell’adozione da parte del Comune di un nuovo Regolamento del Corpo di Polizia Locale, con il quale si prevedeva che lo status di obiettore di coscienza non fosse compatibile con l’appartenenza al Corpo, in quanto l’ordinario servizio prevedeva per tutti indistintamente l’uso delle armi. Tale disposizione non era presente nella precedente versione del Regolamento, nella quale non si faceva alcuna menzione né di uso delle armi né di particolari trattamenti riservati agli obiettori di coscienza. Tanto è vero che i precedenti bandi di reclutamento del personale non prevedevano alcuna esclusione per gli obiettori, né gli/ le agenti avevano mai svolto servizio armato. Con il vigore delle nuove disposizioni un agente dichiaratamente obiettore era stato destinato con ordine di servizio alle attività interne della Centrale Radio e rimosso dal servizio esterno. Veniva inoltre negato alle Agenti di genere femminile già in servizio (le quali, non soggette alla leva militare, non avevano avuto occasione di obiettare all’uso delle armi), di esprimersi in tal senso. Il sindacato faceva presente che per molte attività esterne l’arma non appariva essenziale, quali, ad esempio, il servizio di polizia annonaria, commerciale, edilizia e tributaria, cui gli obiettori di coscienza potevano validamente essere adibiti e che la penalizzazione subita dai soli dipendenti obiettori si configurasse quale discriminazione sul lavoro in danno di quei lavoratori e lavoratrici che, a causa della professione di un credo o comunque per convinzioni personali etiche e morali riconosciute dall’ordinamento, stavano subendo in ambito lavorativo un trattamento deteriore rispetto ad altri dipendenti in situazione analoga. Una discriminazione multipla, in quanto la condotta del Comune pareva violare sia l’art. 2 del D. Lgs. n. 216/2003 che vieta le disparità di trattamento dirette ed indirette a causa delle convinzioni personali professate ed a causa dell’età, sia l’art. 25 del D. Lgs. n. 198/2006, che vieta le discriminazioni in ragione del genere, dal momento che le donne Agenti di Polizia Locale non avevano potuto manifestare formalmente l’obiezione di coscienza, a differenza degli uomini che erano stati soggetti alla leva obbligatoria. Poiché l’Amministrazione comunale non dava seguito alle richieste dell’Organizzazione Sindacale e dell’obiettore ed ordinava l’uso dell’arma a tutti i/le dipendenti indistintamente, veniva radicata l’azione ex art. 28 d.lgs. 150/2011 e 702 bis c.p.c. La amministrazione comunale si costituiva, respingendo ogni addebito ed invocando la legittimità del suo operato. Dopo un infruttuoso tentativo di conciliazione, la causa veniva decisa con l’accoglimento totale delle domande dei ricorrenti e con la previsione di un piano di rimozione delle discriminazioni accertate.
2.Il diritto all’obiezione di coscienza ed il fattore di discriminazione delle “convinzioni personali”. Le fonti normative nazionali e sovranazionali.
La peculiare vicenda ci offre l’occasione di esaminare un tema che non viene frequentemente trattato ma si presenta ancora di stretta attualità. La casistica finora riscontrata in materia di discriminazione per “opinioni personali” infatti annovera alcuni interessanti precedenti giurisprudenziali del giudice nazionale esclusivamente connessi all’esercizio dei diritti politici e sindacali[1]. Mentre l’obiezione di coscienza al porto ed all’uso dell’arma finora aveva trovato spazio nell’ambito del diritto antidiscriminatorio solo sotto l’egida del fattore “genere” e non già sotto il profilo dell’esercizio del diritto a professare una determinata ideologia od opinione[2]. Maggiore interesse per la questione si riscontra da parte della giurisprudenza amministrativa, che si è più volte espressa circa la legittimità o meno dei bandi di reclutamento del personale nei corpi di Polizia Locale, ove essi escludano la candidatura degli obiettori di coscienza. Il delicato ed annoso tema dell’obiezione di coscienza all’armamento, ovvero il rifiuto di obbedire ad una prescrizione, quale il porto e l’uso delle armi, che sia contraria a propri personali principi etici, morali e di coscienza, merita pertanto una specifica e focalizzata disamina, tanto più interessante oggi, se letta alla luce della recente sentenza della CGUE del 13 ottobre scorso. È utile ricordare che nel nostro Paese il tema si è posto subito, fin dall’Assemblea Costituente, in relazione all’approvazione dell’art. 52 della Costituzione[3] e la successiva regolamentazione legislativa dell’obiezione di coscienza all’armamento ha avuto un percorso tutt’altro che lineare, che si è sostanzialmente assestato solo con la relativamente recente abolizione della leva maschile obbligatoria. La legge sull’obiezione di coscienza attualmente vigente è ancora la l. n. 230 del 1998 (che sostituisce la precedente legge n. 772/1972), recante “Nuove norme in materia di obiezione di coscienza”.[4] Tale norma fa discendere la dichiarazione di obiezione di coscienza dall’esercizio del diritto alla libertà di pensiero, coscienza e religione sanciti in convenzioni internazionali cui l’Italia ha aderito. Secondo tali fonti, l’obiezione di coscienza viene proposta in termini di diritto soggettivo del cittadino obiettore, al quale viene offerto un modo alternativo di servire la Patria mediante lo svolgimento di attività non armate di rilievo sociale. L’art. 15 della legge sopra indicata vieta a coloro che hanno prestato il servizio civile come obiettori “di partecipare ai concorsi per l’arruolamento nelle forze armate, nell’arma dei Carabinieri, nel Corpo della Guardia di Finanza, nella Polizia di Stato, nel corpo di Polizia Penitenziaria, nel corpo Forestale dello Stato o per qualsiasi altro impiego che comporti l’uso delle armi”. Con la legge 14 novembre 2000 n. 331, recante “Norme per l’istituzione del Servizio Militare professionale” è stata abolita la leva obbligatoria militare e sostituita con un servizio volontario e professionale. Con la successiva legge 23 agosto 2004 n. 226 (“Sospensione anticipata del servizio obbligatorio di leva e disciplina dei volontari di truppa in ferma prefissata”), la sospensione della leva obbligatoria è stata anticipata al 1° gennaio 2005. Il Decreto Legge 30 giugno 2005 n. 115 ha previsto per gli obiettori ancora in servizio il congedo anticipato al 1° luglio 2005. In materia è successivamente intervenuta la legge 2 agosto 2007 n. 130 (Modifiche alla legge 8 luglio 1998 n. 230 in materia di obiezione di coscienza) che ha regolamentato, sotto il profilo che ci riguarda, il diritto a rinunziare allo status di obiettore (commi 7-bis e 7-ter dell’art. 15). Infine il D. Lgs. n. 66/2010 (Codice dell’ordinamento militare), ha in parte abrogato la l. 230/1998, disciplinando all’art. 2097 e ss. l’esercizio del diritto all’obiezione di coscienza e le sue conseguenze[5]. Nella prospettiva della nostra riflessione, vi è a dire che con l’abolizione della leva obbligatoria è venuta definitivamente meno l’unica occasione riconosciuta dall’ordinamento vigente ai soli cittadini di sesso maschile per manifestare formalmente l’obiezione di coscienza all’uso ed al porto delle armi. Il tema però, come più sopra si anticipava, non è diventato obsoleto e si è riproposto più volte negli anni, in particolare in occasione del reclutamento a mezzo bandi pubblici degli Agenti di Polizia Locale da parte delle pubbliche amministrazioni. Infatti l’art. 15 della l. n. 230 del 1998 sopra richiamato, che vietava espressamente agli obiettori la partecipazione a concorsi pubblici per le Forze Armate, per i Corpi e per gli impieghi che comportino l’uso delle armi, è stato interpretato dalla giurisprudenza meno recente come non ostativo, in linea di principio, all’accesso ed alla permanenza nei ranghi delle Polizie Locali degli obiettori (vedi in tal senso Tar Toscana, sent. 15 gennaio 2007 n. 8, Consiglio di Stato sez. V 21 giugno 2007 n. 3336). L’argomentazione principale di tali pronunce fa perno essenzialmente sulla Legge Quadro sull’Ordinamento di Polizia Municipale n. 65 del 7.3.1986, modificata dall’art. 17 della legge 15.05.1997 n. 127[6], che ha introdotto due importanti novità: 1) l’eliminazione dell’automatismo in precedenza previsto tra porto dell’arma e conferimento della qualità di Agente di Pubblica Sicurezza (oggi l’Agente di Polizia Locale non “porta”, ma “può portare”le armi); 2) la necessità che l’armamento sia deliberato dal consiglio comunale. Secondo tali pronunce risulta chiaro nell’intento del legislatore che le funzioni di Agente di Polizia Locale non comportino di per sé l’uso delle armi. A questa apertura da parte della Giurisprudenza amministrativa verso la partecipazione degli obiettori ai bandi di reclutamento degli agenti di Polizia Locale[7], ha fatto seguito una rimeditazione da parte del Consiglio di Stato, con la sentenza n. 8997 del 29.12.2009, che ha negato il diritto di accesso dell’obiettore ai ranghi delle Polizie Locali, pur affermando che la questione debba essere risolta non in astratto, bensì facendo riferimento alla concreta disciplina che ciascun Comune prevede per le mansioni di Vigile Urbano da ricoprire con la specifica procedura concorsuale. Coerenti con tali indicazioni altre pronunce di Tribunali Amministrativi regionali (TAR Campania Napoli sez. V n. 673/2006, TAR Salerno sez. I n. 1854/2004, TAR Lazio Roma n. 1597/2005), richiamate anche dal Comune convenuto a sostegno della propria posizione. Sulla questione si era altresì espresso il Ministero dell’Interno, Dipartimento per gli affari interni e territoriali, rispondendo a molteplici richieste di pareri avanzate da parte di associazioni sindacali, se vi fosse o meno una violazione della legge sull’obiezione di coscienza da parte di enti territoriali nell’emanazione di bandi per Agente di Polizia Locale. Con il parere n. 16106/49 del 2003 il Ministero afferma che “l’aver dichiarato lo stato di obiettore di coscienza non è di per sé causa ostativa all’assunzione o alla permanenza nel corpo o servizio di polizia municipale”, a fronte del carattere eventuale o occasionale che per la Polizia Municipale riveste lo svolgimento dei servizi armati, desumibile dalla modifica legislativa della legge quadro sull’ordinamento della Polizia Municipale introdotta dall’art. 17 legge 127/1997[8]. Uno degli snodi fondamentali in diritto dell’ordinanza in commento fa riferimento alla modifica del quadro normativo nel quale i/le agenti, assunti/e attraverso bandi che non prevedevano alcuna preclusione per gli obiettori, si sono trovate, dovendo fare i conti con la diversa regolamentazione dei requisiti di accesso e di permanenza nella Polizia Locale introdotta dal Comune. Tale mutamento di contesto ha imposto al lavoratore/ lavoratrice, che per genere (o per età, anche se il fattore non è risultato rilevante nel caso di specie) non aveva avuto in precedenza né occasione né necessità di obiettare, a fronte di un armamento generalizzato introdotto con regolamento comunale, di confrontarsi per la prima volta con un obbligo in grado di toccare il nucleo profondo dei suoi convincimenti morali e/o religiosi. Quindi, secondo il Tribunale adito, la tutela invocata riguardava a buon diritto gli /le Agenti reclutati/e con concorsi nei quali non era prevista alcuna forma di incompatibilità con lo status di obiettore, ai/alle quali doveva essere consentito esprimersi circa l’obiezione all’armamento, non essendo stata loro consentita tale obiezione in occasione del servizio obbligatorio di leva. Mentre per l’agente dichiaratamente obiettore, la sua rimozione dai vari servizi esterni che aveva fin dall’assunzione sempre svolto (non armato) e la sua collocazione d’imperio con ordine di servizio ai servizi interni della Centrale Radio Operativa, con conseguente perdita economica, sono stati valutati dal Giudice quali effetti direttamente connessi al suo status di obiettore di coscienza, in assenza di altra ragione alternativa del contestato trasferimento. La condotta del Comune pertanto veniva ritenuta discriminatoria, con conseguente ordine di ricollocazione del lavoratore nelle precedenti mansioni esterne da svolgersi senza armi e di attivazione di un percorso che consentisse entro un determinato termine e per una sola volta, la manifestazione dell’obiezione di coscienza all’uso e porto delle armi anche a quegli/quelle Agenti ai/alle quali ciò non fosse stato consentito per ragioni di genere, non essendo interessati/e alla chiamata obbligatoria alle armi ed in ogni caso essendo stati/e assunti/e quando il Comune non aveva adottato alcuna decisione circa l’armamento del Corpo. Si segnala l’attenta ricostruzione da parte del Giudice estense del fattore “convinzioni personali”, che viene descritto quale criterio autonomo rispetto alla religione e ricondotto alla disciplina comunitaria, segnatamente all’art. 13 del Trattato di Amsterdam, che ha modificato il Trattato istitutivo dell’Unione Europea, attribuendo agli Stati Membri il potere di adottare misure per combattere le discriminazioni fondate “sul sesso, la razza o l’origine etnica, la religione o le convinzioni personali, gli handicap, l’età o le tendenze sessuali”, all’art. 21 della Carta dei diritti fondamentali siglata a Nizza il 7.12.2000, ora recepita nel Trattato di Roma del 19.10.2004 e nella Direttiva “di nuova generazione” 2000/78/CE del 27.11.2000 (che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro). Merita ricordare che anche in sede internazionale la tutela delle opinioni politiche, etiche o di altro genere ha trovato garanzia contro ogni forma di discriminazione, a partire dalla Convenzione Generale dell’OIL del 6/22 giugno 1962, ratificata con la legge n. 657/66[9], fino ad arrivare alla Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo (art. 18). Il fattore in questione è stato recepito nel nostro ordinamento interno dal D. Lgs. n. 216 del 9 luglio 2003 (Attuazione della Direttiva 2000/78/CE per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro), che richiama espressamente le “convinzioni personali”, considerato da dottrina e giurisprudenza prevalenti quale fattore autonomo e distinto accanto a religione, handicap, età, ed orientamento sessuale, sia nell’art. 1 (oggetto), sia nell’art. 2, primo capoverso, (nozione di discriminazione), nel quale si declinano sia il principio di parità di trattamento (per il quale si intende “l’assenza di qualsiasi discriminazione diretta o indiretta a causa della religione, delle convinzioni personali, degli handicap, dell’età e dell’orientamento sessuale”), che la definizione di discriminazione diretta (“quando per religione, per convinzioni personali, per handicap, per età o per orientamento sessuale, una persona è trattata meno favorevolmente di quanto sia, sia stata o sarebbe trattata un’altra in situazione analoga”), ed indiretta (“quando una disposizione un criterio, una prassi, un atto, un patto, o un comportamento apparentemente neutri possono mettere le persone che professano una determinata religione, o ideologia di altra natura, le persone portatrici di handicap, le persone di una particolare età o di un orientamento sessuale in una situazione di particolare svantaggio rispetto ad altre persone”). L’adozione da parte della norma nazionale di recepimento, per lo meno in apparenza, della stessa terminologia comunitaria per definire questo peculiare fattore di rischio di discriminazione, ha indotto la giurisprudenza nazionale a considerare che con la locuzione “convinzioni personali” o “ideologia di altra natura” (diversa dalla religione) si prenda in considerazione una categoria concettuale ampia, inerente alle opinioni morali, ideologiche, filosofiche, ma anche politiche, sindacali o di altra natura, che connotino l’identità di una persona. Secondo la interpretazione finora prevalente, sia il legislatore comunitario che quello nazionale, attraverso il recepimento, avrebbero voluto dare autonoma tutela, con questa ampia espressione, a tutte le diverse declinazioni della libertà di opinione del lavoratore/trice, evitando elencazioni analitiche che avrebbero potuto portare ad un restringimento dell’ambito di applicazione del divieto. Fino ad ora, quantomeno, appariva legittimo ritenere che la Direttiva 2000/78/CE ed il D. Lgs. di recepimento n. 2016/03, tutelando le convinzioni personali dalle discriminazioni, avesse inteso dare ingresso nell’ordinamento comunitario al formale riconoscimento, nell’ambito dei rapporti di lavoro, alla c.d. “libertà ideologica” (sensibilmente diversa sotto il profilo ontologico dalla libertà di professare un credo, tutelata dal divieto di discriminazione per motivi religiosi: vedi sulla distinzione fra i due fattori Cass. 10179/04 e Cass. n. 3821/2011), il cui ampio contenuto materiale poteva essere determinato anche facendo riferimento ai Trattati ed alla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo. In altre parole, l’ampia nozione di “convinzioni personali” considerata quale criterio autonomo e distinto dalla religione, dovrebbe racchiudere secondo l’interpretazione finora prevalente, una serie di categorie morali di ciò che può essere definito il “dover essere” dell’individuo, che vanno dall’etica alla filosofia, dalla politica (in senso lato) alla sfera dei rapporti sociali (così Corte di Appello di Roma, 9.10.2012, Fabbrica Italia Pomigliano SPA/FIOM-CIGIL Nazionale, confermata da Cass. sez. Lavoro n. 5581/14 del 11 marzo 2014). In questo contesto interpretativo il caso di specie si inseriva agevolmente, riguardando esso il convincimento etico di chi professa il pacifismo e la non violenza e rifiuta l’uso ed il porto delle armi, sia per ragioni riconducibili al credo religioso, che per convincimenti etico-filosofici di matrice laica. Ora, l’obiezione di coscienza rispetto alle armi risulta indubitabilmente un fattore ascrivibile all’ambito delle caratteristiche personali individualmente “scelte”, che riflettono un’identità, uno stile di vita, un approccio etico, un’adesione ad un precetto morale volontariamente determinato dagli interessati. Nel nostro Paese l’obiezione di coscienza rispetto al servizio militare ed all’armamento ha una lunga e tormentata storia, che ha tenuto impegnate le aule parlamentari e finanche giudiziarie, fino al suo definitivo riconoscimento normativo ed all’abolizione del servizio militare obbligatorio (maschile), con l’introduzione del servizio militare professionale, cui oggi accedono volontariamente sia uomini che donne. Una storia che ha riguardato sia l’ambito del pacifismo e dell’antimilitarismo di connotazione religiosa[10] che quello laico. In questa prospettiva, il quadro di riferimento secondo la pronuncia esaminata è l’art. 2 del D. Lgs. n. 216 del 2003 (attuazione della Direttiva 2000/78/CE per la parità di trattamento in materia di occupazione e condizioni di lavoro), che sancisce il principio di parità di trattamento sotto il profilo dell’assenza di qualsiasi discriminazione diretta o indiretta non solo a causa dell’handicap, dell’età o dell’orientamento sessuale, ma altresì della religione e delle convinzioni personali. In forza di tale norma di recepimento si ha discriminazione diretta quando, per le proprie convinzioni personali(o per un altro fattore di rischio tassativamente indicato dalla norma di cui sopra), una persona sul lavoro è trattata meno favorevolmente di quanto sia, sia stata, o sarebbe trattataun’altra in una situazione analoga. Per il Tribunale estense la fattispecie de quo relativa alla posizione dell’agente di polizia locale demansionato perché obiettore, integra un caso di discriminazione diretta, poiché il trattamento meno favorevole sul piano lavorativo riservatogli dal Comune in ragione di tale status che si sostanzia nel rifiuto del porto e dell’uso delle armi per ragioni etiche, è direttamente connesso alla manifestazione di una convinzione personale. Il divieto di discriminazione (diretta) a causa di un determinato fattore di rischio trova delle eccezioni/deroghe tassative, previste dall’art. 3 comma 3 del D. lgs. n. 216/2003, secondo il quale, nel rispetto dei principi di proporzionalità e ragionevolezza, e purché la finalità sia legittima, non costituiscono atti di discriminazione ai sensi dell’art. 2 quelle caratteristiche connesse alla convinzioni personali (ed a gli altri fattori di rischio ivi declinati) di una persona “qualora, per la natura dell’attività lavorativa o per il contesto in cui questa viene espletata, si tratti di caratteristiche che costituiscono un requisito essenziale e determinante ai fini dello svolgimento dell’attività medesima”. E nel caso di specie l’aver aderito all’obiezione di coscienza rispetto all’uso delle armi non è stata ritenuta una “caratteristica” tale da costituire un “requisito essenziale e determinante” in relazione alle molteplici attività istituzionalmente svolte dall’Agente di Polizia Locale, per le quali, secondo la normativa vigente, l’avere o meno un’arma non è “essenziale e determinante”. Nel caso di specie, la decisione del Comune di armare tutto l’intero Corpo di Polizia Locale, anche a prescindere dalla legittimità delle finalità di ordine pubblico che volesse perseguire, non è apparsa assistita dai principi di proporzionalità e ragionevolezza richiesti dalla norma di matrice comunitaria, a fronte delle varie funzioni che incombono al Corpo, nel cui ambito i servizi armati hanno solo “carattere eventuale” (come affermato negli atti difensivi anche dallo stesso Comune). Infatti le funzioni per le quali l’arma è in ogni caso obbligatoria sono solo, secondo l’art. 20 del DM n. 145 del 4 marzo 1987, i servizi esterni di vigilanza, la protezione della casa comunale, la protezione dell’armeria del Corpo, i servizi notturni ed il pronto intervento. Mentre ai sensi del Regolamento adottato dal Comune gli/le Agenti di Polizia Locale avrebbero funzioni diverse, delle quali solo alcune potrebbero potenzialmente implicare un servizio armato. Invece la discriminazione collettiva riguardante le donne agenti è stata qualificata dalla Giudice ferrarese come discriminazione indiretta, ipotesi che ammette, a differenza della discriminazione diretta, cause di giustificazione di un trattamento differenziato, purché la finalità sia legittima e sia perseguita attraverso mezzi appropriati e necessari[11]. Cause di giustificazione che nella fattispecie de quo non sono state rinvenute, essendo apparsa non necessaria, nonché sproporzionata, la scelta di armare indistintamente ed obbligatoriamente tutti gli Agenti, anche ove essi siano impegnati in funzioni che ragionevolmente non richiedono il porto e l’uso delle armi, senza consentire a chi per ragioni di genere non avevano avuto l’occasione di manifestare l’obiezione, con l’effetto di emarginare, demansionare o comunque rimuovere da tali servizi coloro che rifiutassero l’uso delle armi per ragioni etiche come gli obiettori di coscienza (che non possono essere armati), deprivandoli ingiustificatamente di tali abituali mansioni e cagionando loro un nocumento economico per la perdita di compensi o indennità.
3. La discriminazione multifattoriale: convinzioni personali, genere ed età.
Un’ulteriore peculiarità del caso deciso con l’ordinanza emarginata riguarda la presenza di una molteplicità di fattori di rischio ed in particolare la trasversalità del “genere” rispetto agli altri fattori. La norma di derivazione comunitaria (art. 1 del D. Lgs. n. 216/2003) tiene conto di tale ipotesi, “disponendo le misure necessarie affinché tali fattori non siano cause di discriminazione, in un’ottica che tenga conto anche del diverso impatto che le stesse forme di discriminazione possono avere su donne e uomini”. Tale principio è la trasposizione del Considerando n. 3, declinato nella Direttiva 2000/78/CE, che tiene conto della differenza di genere che caratterizza tutti i soggetti, uomini e donne, destinatari della disciplina antidiscriminatoria e che può comportare una moltiplicazione di fattori di rischio, con un pregiudizio proporzionalmente maggiore per il genere femminile, già portatore ex se di una condizione di svantaggio in ambito lavorativo[12]. Nella fattispecie è interessante rilevare come le Agenti di genere femminile nel Corpo di Polizia Locale fossero più numerose degli Agenti di genere maschile, con una incidenza proporzionalmente maggiore della discriminazione nei confronti di quelle donne Agenti, assunte dal Comune attraverso bandi di reclutamento che nulla prevedevano in ordine a limiti né di accesso né di permanenza del Corpo connessi allo status di obiettore, le quali non avevano avuto occasione di manifestare l’obiezione di coscienza nell’ambito del servizio di leva obbligatorio, a differenza dei colleghi maschi, e come tali venivano assoggettate ad un trattamento più sfavorevole. Come già più sopra anticipato, tale discriminazione di genere è stata rilevata altresì dalla giurisprudenza di merito in una fattispecie analoga[13]. Per il fattore “età”, pur dedotto nella fattispecie, astrattamente si sarebbe potuto intersecare con i fattori “convinzioni personali” e “genere”, dal momento che anche gli Agenti di sesso maschile nati dopo il 1985, a partire dall’anno 2000 non avrebbero più potuto manifestare l’obiezione di coscienza alle armi in occasione della chiamata di leva obbligatoria e sarebbero stati privi di qualsivoglia procedura riconosciuta dall’ordinamento per manifestare la propria convinzione etica. Circostanza che nel caso di specie non era emersa nel corso dell’istruttoria, che aveva evidenziato l’assenza di agenti con tali caratteristiche anagrafiche.
4. L’azione collettiva antidiscriminatoria.
Uno degli aspetti maggiormente dibattuti nella controversia concerne la natura e l’ammissibilità dell’azione collettiva proposta dall’Organizzazione Sindacale. La fonte dell’azione collettiva è rinvenibile nel disposto delle Direttive di nuova generazione in materia antidiscriminatoria, le quali riconoscono esplicitamente alle associazioni, organizzazioni o altre persone giuridiche aventi un legittimo interesse a garantirne l’attuazione, il diritto di avviare procedimenti in via giurisdizionale o amministrativa per conto o a sostegno della persona che si ritiene lesa e con il suo consenso (art. 9 comma 2 Dir. 2000/78/CE che prevede la sussistenza di una discriminazione diretta o indiretta non solo attuale, ma anche potenziale[14], a fronte dell’impossibilità di identificazione dei soggetti lesi dal comportamento che si assume discriminatorio)[15]. L’Organizzazione Sindacale è stata riconosciuta nel caso di specie legittimata alla proposizione in giudizio dell’azione collettiva prevista dall’art. 5 del D. Lgs. n. 216 del 2003, a fronte dell’impossibilità di individuare in modo diretto ed immediato quanti e quali Agenti della Polizia Locale fossero nella condizione di voler/dover rifiutare l’arma per convinzioni personali e fossero stati/e messi in condizione di esprimere la propria obiezione di coscienza, sia per timore di ritorsioni, sia in assenza di percorsi di manifestazione formalizzata. Come le Agenti donne già in servizio che, a cagione del loro sesso di appartenenza, non erano state soggette all’obbligo di leva (esclusivamente maschile fino alla sua definitiva abolizione nei primi anni 2000) e pertanto non hanno avuto modo di manifestare formalmente l’obiezione. È stata respinta sotto questo profilo l’eccezione dell’Amministrazione, la quale riteneva inammissibile l’azione collettiva, a fronte di una supposta possibilità per l’OS di identificare soggettivamente i soggetti interessati all’azione, promuovendo conseguentemente ricorsi individuali plurimi.Si segnala infine che una delle ricadute sistemiche più insidiose della discriminazione consiste nell’effetto di scoraggiamento esercitato da tali condotte sul soggetto portatore del fattore protetto, che ne condiziona le manifestazioni, lo induce a tenere un atteggiamento remissivo ed a rinunciare ad intraprendere azioni a propria tutela per evitare conseguenze ritorsive. In questa prospettiva l’azione collettiva esprime la sua valenza più significativa, riuscendo a dare voce a chi è dovuto rimanere nell’ombra ed estendendo gli effetti della pronuncia anche a soggetti non diversamente identificati se non dall’appartenenza ad un gruppo caratterizzato da un determinato fattore protetto. In ordine ai requisiti del soggetto collettivo per esercitare la propria legittimazione attiva,il sopra ricordato art. 5 commi 1 e 2 D. Lgs. n. 216/2003 si limita a riconoscerla alle organizzazioni sindacali, alle associazioni ed alle organizzazioni rappresentative del diritto o dell’interesse leso nei casi di discriminazione collettiva qualora non siano individuabili in modo diretto ed immediato le persone lese dalla discriminazione. La norma non sembra indicare alcuna ulteriore caratteristica per il riconoscimento della legittimazione attiva del sindacato, come tale ritenuto ente esponenziale di interessi legati alla tutela dei lavoratori/trici per propria mission storica e nella propria azione quotidiana. La peculiarità del fattore tutelato e la sua valenza spiccatamente morale e filosofica ha indotto nel caso di specie a corroborare vieppiù gli elementi caratterizzanti dell’interesse sindacale all’azione, attraverso il richiamo alle norme statutarie, che non solo ricordano l’interesse collettivo dei lavoratori e delle lavoratrici alle dipendenze della pubblica amministrazione a non subire discriminazioni ed alla parità di trattamento in ambito lavorativo, ma altresì riconoscono l’impegno sindacale a tutela della legalità e del rispetto di tutte le differenze[16]. Per Cass. 20 luglio 2018 n. 19443 tale legittimazione si rinviene sia sotto il profilo della causa petendi (la violazione della parità di trattamento), che del petitum (la richiesta di cessazione del comportamento discriminatorio, della rimozione degli effetti e del risarcimento del danno).
5. Il provvedimento del giudice ed il piano di rimozione.
Secondo il disposto dell’art. 28 del D. Lgs. n. 150/2011al comma 5 “Con l’ordinanza che definisce il giudizio il giudice può condannare il convenuto al risarcimento del danno anche non patrimoniale e ordinare la cessazione del comportamento, della condotta o dell’atto discriminatorio pregiudizievole, adottando, anche nei confronti della pubblica amministrazione, ogni altro provvedimento idoneo a rimuoverne gli effetti. Al fine di impedire la ripetizione della discriminazione, il giudice può ordinare di adottare, entro il termine fissato nel provvedimento, un piano di rimozione delle discriminazioni accertate. Nei casi di comportamento discriminatorio di carattere collettivo, il piano è adottato sentito l’ente collettivo ricorrente”. Il Tribunale adito ha espresso un interessante ed articolato piano di rimozione che contempla l’individuazione del personale femminile reclutato con bandi che non prevedevano il non essere obiettori quale requisito essenziale, che fosse interessato ad esprimere la propria volontà o meno di obiettare, l’acquisizione per una sola volta delle eventuali dichiarazioni di obiezione, l’adibizione delle obiettrici a tutti i servizi, interni ed esterni, senza il porto dell’arma, la adibizione dell’Agente obiettore nelle precedenti mansioni svolte, la condanna a risarcire il danno patrimoniale e non patrimoniale cagionato dalla condotta discriminatoria. Sotto il profilo del contenuto del provvedimento giudiziale, la giurisprudenza comunitaria in materia antidiscriminatoria afferma che, una volta accertata la lesione del diritto alla parità di trattamento, la riparazione non può che consistere nella attribuzione del bene ingiustamente negato[17] e pertanto dovrà comportare l’applicazione al gruppo sfavorito dello stesso regime riservato alle persone in posizione analoga. In ordine alla posizione del ricorrente individuale, il lavoratore è stato destinatario di un provvedimento risarcitorio che lo tenesse indenne dal pregiudizio subito, consistente nella perdita delle indennità contrattualmente connesse allo svolgimento dei servizi esterni in precedenza svolti senza armamento, dai quali era stato ingiustamente rimosso. Infine il convenuto è stato condannato al pagamento in favore del soggetto collettivo del danno non patrimoniale che deriva dalla violazione ex se della norma di divieto di disparità di trattamento in ragione di un fattore protetto, che ai sensi degli artt. 17 e 18 Direttiva comunitaria 2000/78/CE, deve essere effettivo, proporzionato e dissuasivo ed alla pubblicazione del provvedimento, per una sola volta e a spese del convenuto, su un quotidiano di tiratura nazionale per soddisfare altresì la finalità disincentivante, oltre che inibitoria/riparatoria/restitutiva, del provvedimento giudiziale.
6. Considerazioni conclusive
In chiusura appare necessario interrogarsi sulle eventuali ricadute della sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea del 13 ottobre 2022, C-344/20 L. F. contro S.C.R.L sulla attuale nozione di discriminazione per opinioni personali, così come è stata elaborata nel tempo dalla giurisprudenza del giudice nazionale. Indubbiamente l’effetto più significativo di tale presa di posizione della Curia è insito nell’affermazione che l’espressione religione o convinzioni personali contenuta nell’art. 1 della Direttiva 2000/78/CE costituisca un solo ed unico motivo di discriminazione, comprendente tanto le convinzioni religiose quanto le convinzioni filosofiche e spirituali. Rendendo così, se non inutile, quantomeno specioso il ricco dibattito che si era a suo tempo articolato attorno alla distinzione fra i due profili di rischio (religione o altra ideologia), e segnatamente in occasione delle note pronunce in materia di discriminazione sindacale. Non solo, la CGUE in modo decisamente tranchant esclude che una disposizione nazionale, la quale consideri le convinzioni religiose e quelle filosofiche due profili di discriminazione distinti, possa essere considerata disposizione più favorevole di quella prevista dalla direttiva. La Corte del Lussemburgo infine ribadisce a chiare lettere che il principio di tassatività dei motivi di discriminazione insito nella Direttiva 2000/78 espunge dalla tutela le convinzioni politiche, così come “le convinzioni o le preferenze artistiche, sportive, estetiche o di altro tipo”, la cui protezione si pone al di fuori della disciplina della Direttiva stessa. Esclusa così la possibilità sia da parte del legislatore che del giudice nazionale di scindere il motivo di discriminazione connesso alla religione da quello legato alle convinzioni personali mediante un approccio segmentato, ci si chiede se tale indicazione porterà effetti significativi, nel momento in cui si dovesse riproporre un caso di discriminazione connessa alla affiliazione sindacale, ove tale convinzione personale venisse attratta nella sfera della “convinzione politica”, non compresa nell’area di protezione antidiscriminatoria della Direttiva. Il fatto di considerare la religione e le convinzioni personali due facce “dello stesso ed unico motivo di discriminazione” (e nello stesso senso si erano pronunciate le sentenze WABE e MH Muller Handel, C-804/18 e C-341/19), indubbiamente implica una forte accentuazione della dimensione spirituale ed etico/filosofica delle convinzioni personali stesse ed una loro inevitabile attrazione nell’orbita del credo religioso, al fine di distinguerle più nettamente da quelle “opinioni politiche” o da “qualsiasi altra opinione”, rimaste orfane di tutela comunitaria. Ci sia consentito esprimere più di una perplessità circa le rassicurazioni cui la Corte di Giustizia europea si fa carico, quando esclude il rischio di un abbassamento del livello della tutela per le convinzioni filosofiche o spirituali rispetto a quelle religiose, nel momento in cui vengono associate in un unico motivo. Distinguendo i due fattori e riconoscendo l’autonomia delle opinioni personali rispetto alla religione, la Corte paventa il pericolo di creare “sottogruppi di dipendenti” e di pregiudicare così il quadro generale di parità di trattamento. Al contrario, riteniamo sommessamente, la coesistenza di due motivi ontologicamente diversi in un unico fattore, potrebbe configurare un rischio di assorbimento da parte delle convinzioni religiose, indubbiamente più strutturate, rispetto alle convinzioni filosofico/spirituali, più evanescenti, riservando a queste ultime solo una tutela riflessa e sostanzialmente residuale. Tornando al caso deciso dalla pronuncia, l’obiezione di coscienza al porto ed all’uso delle armi si presenta storicamente come un’opinione personale con robusti addentellati sia filosofici che religiosi legati al pacifismo ed al movimento non violento e non avrà necessità di accentuare l’una o l’altra delle sue matrici ideologiche per trovare comunque adeguata tutela antidiscriminatoria. Mentre per la discriminazione di natura sindacale probabilmente si prefigurano scenari futuri più incerti e tempestosi.
Avv. Marina Capponi
[1] così Corte di Appello di Roma, 9.10.2012, Fabbrica Italia Pomigliano SPA/ FIOM-CIGIL Nazionale, confermata da Cass. sez. Lavoro n. 5581/14 del 11 marzo 2014. La Corte del Lussemburgo nella sentenza L.F. del 13 ottobre scorso (punti 43 e 44) a fronte della richiesta del giudice del rinvio se le convinzioni religiose, filosofiche e politiche costituiscano tre distinti motivi di discriminazione e come tali da considerare trattamento più favorevole a quello previsto dalla Direttiva, risponde negativamente, richiamando il principio di tassatività dei fattori, l’unitarietà dei fattori religione/convinzioni personali e l’esclusione dalla tutela delle convinzioni politiche.
[2] Tribunale di Venezia sez. lav. n. 502 del 27.07.2017 Comune di Venezia vs. Al.Pe. + altre in De Jure 2021.
[3] Vedi E. Bettinelli “Commento all’art. 52 della Costituzione”, in AA.VV. Commentario della Costituzione a cura di G. Branca, Zanichelli.
[4] L’art. 1 di tale norma così recita: “I cittadini che per obbedienza alla coscienza, nell’esercizio del diritto alla libertà di pensiero, coscienza e religione riconosciute dalla Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo e dalla Convenzione internazionale sui diritti civili e politici, opponendosi all’uso delle armi, non accettano l’arruolamento delle Forze armate e nei Corpi armati dello Stato, possono adempiere agli obblighi di leva prestando, in sostituzione del servizio militare, un servizio civile diverso per natura e autonomo dal servizio militare ma come questo rispondente al dovere costituzionale di difesa della patria”.
[5]”Coloro che, per obbedienza alla coscienza, nell’esercizio del diritto alla libertà di pensiero, coscienza e religione riconosciute dalla Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo e dalla Convenzione internazionale sui diritti civili e politici, opponendosi all’uso delle armi, non accettano l’arruolamento nelle Forze Armate e nelle Forze di Polizia della Stato, possono adempiere agli obblighi di leva, in tempo di guerra o di grave crisi internazionale, prestando in sostituzione del servizio militare, un servizio civile, diverso per natura e autonomo dal servizio militare, ma come questo rispondente al dovere costituzionale di difesa della Patria e ordinato ai fini enunciati dai principi fondamentali della Costituzione (..) per quanto non disposto nel presente titolo, in ordine agli enti presso cui prestare servizio e alle modalità di convenzionamento ed espletamento del servizio civile, si applicano gli artt. 8 e 10 della legge 1998 n. 230, la legge 6 marzo 2001 n. 64 e il decreto legislativo 5 aprile 2002 n. 77 e successive modificazioni e integrazioni”.
E lo stesso D. Lgs. 66/2010 attualmente dispone con l’art. 636 che “1.agli obiettori di coscienza che sono stati ammessi a prestare servizio civile è vietato partecipare ai concorsi per qualsiasi impiego che comporti l’uso delle armi e comunque partecipare a qualsiasi procedura per l’arruolamento nelle Forze Armate e nelle Forze di Polizia ad ordinamento militare o per l’assunzione nelle Forze di polizia a ordinamento militare o per l’assunzione nelle Forze di Polizia a ordinamento civile. 2.le disposizioni di cui al comma 1 non si applicano ai cittadini che hanno rinunciato allo status di obiettore di coscienza ai sensi del comma 3. 3.l’obiettore ammesso al servizio civile, decorsi almeno cinque anni dalla data in cui è stato collocato in congedo secondo le norme previste per il servizio di leva, può rinunciare allo status di obiettore di coscienza, presentando apposita dichiarazione irrevocabile presso l’Ufficio Nazionale per il servizio civile che provvede a darne tempestiva comunicazione alla Direzione Generale della previdenza militare di leva
[6] L’art. 5 della legge n. 65/86 originariamente recitava: “gli addetti al servizio di polizia municipale ai quali è conferita la qualità di agente di pubblica sicurezza portano senza licenza le armi di cui possono essere dotati in relazione ai tipo di servizio nei termini e nelle modalità previsti dai rispettivi regolamenti anche fuori dal servizio, purché nell’ambito territoriale di appartenenza”. A seguito della modifica introdotta dall’art. 17 della legge 15.05.1997 n. 127 oggi così recita: “gli addetti al servizio di polizia municipale ai quali è conferita la qualità di agente di pubblica sicurezza possono, previa deliberazione in tal senso del consiglio comunale, portare, senza licenza le armi di cui possono essere dotati in relazione ai tipo di servizio nei termini e nelle modalità previsti dai rispettivi regolamenti anche fuori dal servizio, purché nell’ambito territoriale di appartenenza”.
[7] (vedasi la sopra menzionata sentenza Tar Toscana 15 gennaio 2007 n. 8, in un caso di diniego per l’obiettore alla partecipazione a concorso per Agente di Polizia Municipale: “le funzioni appartenenti alla Polizia Municipale di per sé stesse non rientrano fra quelli che comportano l’uso delle armi e, quindi, la partecipazione al concorso per tale impiego non rientra nell’ambito dello specifico divieto disposto dalla suddetta disposizione legislativa nei confronti degli obiettori di coscienza ammessi a prestare servizio civile; inoltre, per generale canone ermeneutico, le prescrizioni normative limitative della sfera giuridica del privato vanno interpretate restrittivamente per l’evidente esigenza di garantire non solo la certezza del diritto, ma anche l’osservanza dei diritti fondamentali della persona riconosciuti a livello costituzionale”). Il principio che ha ritenuto legittima l’ammissione dell’obiettore ai concorsi per il reclutamento nella Polizia Municipale è stato sancito altresì dal Consiglio di Stato (sez. V 21 giugno 2007 n. 3336), che ha ritenuto legittima l’ammissione ad un concorso a posti di Vigile Urbano di un obiettore di coscienza, “non essendo prescritto da alcuna disposizione normativa l’uso delle armi da parte del vigile”.
[8] secondo il Ministero, starà nella discrezionalità dell’ente stabilire che la Polizia Locale svolga o meno un servizio armato (al di fuori delle funzioni per le quali l’arma è in ogni caso obbligatoria secondo l’art. 20 del DM n. 145 del 4 marzo 1987, ovvero i servizi esterni di vigilanza, la protezione della casa comunale, la protezione dell’armeria del Corpo, i servizi notturni ed il pronto intervento), e solo per tale specifico servizio vi è la preclusione per gli obiettori di coscienza.
[9] Convenzione per la quale uno degli scopi della politica sociale degli Stati stipulanti o aderenti deve essere quello di sopprimere ogni discriminazione basata sulla razza, sul colore della pelle, sul sesso, sulla fede, sull’appartenenza ad un gruppo tradizionale o alla iscrizione sindacale.
[10] nel mondo cattolico ricordiamo le prese di posizione di Don Milani, (“L’obbedienza non è più una virtù”) che gli costarono un processo e la detenzione come cappellano militare, di padre Ernesto Balducci, di uomini politici come Giorgio La Pira, giuristi ed intellettuali come Mario Gozzini ed Aldo Capitini, padre del movimento non violento italiano. A livello internazionale si ricordano i movimenti non violenti e pacifisti di Ghandi e di Martin Luther King.
[11] Vedi per un caso analogo il Decreto Tar Sardegna n. 2181/2007 Consigliera Regionale di Parità c. Comune di Cagliari, con il quale è stato disapplicato per contrasto con il divieto di discriminazione indiretta in ragione del sesso il regolamento del Corpo di Polizia Municipale che configurava come requisito per l’accesso all’impiego la rinuncia preventiva del/della Candidato/a al diritto di richiedere il part-time (fruito dalla donne in misura maggiore) ed annullato il conseguente bando di reclutamento. Nel provvedimento la prestazione a tempo pieno non è stata ritenuta dal giudice amministrativo caratteristica “essenziale”, il mezzo impiegato (l’esclusione del part-time) per il conseguimento dell’obiettivo pure legittimo (organizzazione dei turni) né appropriato né necessario, essendo perseguibile attraverso misure organizzative diverse e non discriminatorie.
[12] Così il Considerando n. 3 della Dir. 2000/78/CE: “Nell’attuazione del principio della parità di trattamento, la Comunità deve mirare, conformemente all’articolo 3 paragrafo 2, del trattato CE, ad eliminare le ineguaglianze, nonché a promuovere la parità tra uomini e donne, soprattutto in quanto le donne sono spesso vittime di numerose discriminazioni”.
[13] Sentenza Tribunale di Venezia sez. lav. n. 502 del 27.07.2017 Comune di Venezia vs. Al.Pe. + altre, in De Jure 4.11.2021.
[14] per la discriminazione diretta “quando per religione, per convinzioni personali, per handicap, per età o per orientamento sessuale, una persona è trattata meno favorevolmente di quanto sia, sia stata o sarebbe trattata un’altra in situazione analoga”,e per la discriminazione indiretta “quando una disposizione un criterio, una prassi, un atto, un patto, o un comportamento attraentemente neutri possono mettere le persone che professano una determinata religione, o ideologia di altra natura(… ) in posizione di particolare svantaggio”.
[15] Art. 9 Direttiva 2000/78/CE “sia concesso a tutte quelle associazioni, organizzazioni o ad altre persone giuridiche, che conformemente ai criteri stabiliti dalle legislazioni nazionali, abbiano un legittimo interesse a garantire che le disposizioni della presente direttiva siano rispettate”.
[16] Così recita lo Statuto della CGIL: TITOLO I Principi costitutivi Articolo 1 – Definizione La Confederazione generale italiana del lavoro (CGIL) è un’organizzazione sindacale generale di natura programmatica, unitaria, laica, democratica, plurietnica, di donne e uomini. Ripudia e combatte ogni forma di molestia, discriminazione e violenza contro le donne e per orientamento sessuale ed identità di genere. Ripudia fascismo e razzismo, sostiene i valori e i principi di legalità e contrasta con ogni mezzo le associazioni mafiose, terroristiche e criminali. Promuove la lotta contro ogni forma di discriminazione, la libera associazione e l’autotutela solidale e collettiva delle lavoratrici e dei lavoratori dipendenti o eterodiretti, di quelli occupati in forme cooperative e autogestite, dei parasubordinati, degli autonomi non imprenditori e senza dipendenti, dei disoccupati, inoccupati, o comunque in cerca di prima occupazione, delle pensionate e dei pensionati, delle anziane e degli anziani. L’adesione alla CGIL è volontaria. Essa comporta piena eguaglianza di diritti e di doveri nel pieno rispetto dell’appartenenza a gruppi etnici, nazionalità, lingua, orientamento sessuale, identità di genere, culture e formazioni politiche, diversità professionali, sociali e di interessi, dell’essere credente o non credente.
[17] vedi CGCE Commissione c/o Italia sent. 16.01.2008. “in caso di discriminazioni incompatibili con il diritto comunitario, finchè non siano adottate misure volte a ripristinare la parità di trattamento, l’osservanza del principio d’eguaglianza può essere garantita solo mediante la concessione alle persone appartenenti alla categoria sfavorita degli stessi vantaggi di cui beneficiano le persone della categoria privilegiata. In tale ipotesi, il giudice nazionale è tenuto a disapplicare qualsiasi disposizione nazionale discriminatoria, senza doverne chiedere o attendere la previa rimozione da parte del legislatore e deve applicare ai componenti del gruppo sfavorito lo stesso regime che viene riservato alle persone dell’altra categoria”.