The finger and the moon and other misunderstandings about gender equality
Il contributo è dedicato alla nuova legge 5 novembre 2021, n. 162, recante Modifiche al codice di cui al decreto legislativo 11 aprile 2006, n. 198, e altre disposizioni in materia di pari opportunità tra uomo e donna in ambito lavorativo. L’autrice segnala alcuni problemi collegati alla modifica legislativa della nozione di discriminazione di genere e genitorialità, una modifica che non risolve il problema del sistema complessivo nazionale che separa il genere dagli altri fattori di rischio rilevanti nella normativa dell’UE. Particolare attenzione è dedicata al modello delle istituzioni di parità in Italia.
This contribution deals with newly adopted legislation n. 162 of Nov. 5 2021 amending the Equal Opportunities Code with regards to workplace gender equality. The author points out some issues related to the change of the notion of gender discrimination and parenthood, stressing that such a change does not address and solve the problem in the Italian antidiscrimination normative that splits gender from other relevant risk factors in EU legislation. Particular attention is paid to the model of equality institutions in Italy.
La legge 5 novembre 2021, n. 162, recante Modifiche al codice di cui al decreto legislativo 11 aprile 2006, n. 198, e altre disposizioni in materia di pari opportunità tra uomo e donna in ambito lavorativo, passata quasi inosservata durante tutta la fase della sua gestazione, è stata una vera sorpresa per chi si occupa da anni di ricomporre il difficile universo regolativo in materia di parità tra donne e uomini. Sicuramente più atteso appariva un intervento di trasposizione intelligente della dir. 2019/1158/UE dedicata all’equilibrio vita e lavoro o, al limite, qualche aggiustamento alla l. 22 maggio 2017, n. 81 Misure per la tutela del lavoro autonomo non imprenditoriale e misure volte a favorire l’articolazione flessibile nei tempi e nei luoghi del lavoro subordinato che tentasse di coordinare utilizzo del lavoro smart con l’impatto di genere emerso platealmente durante la gestione pandemica.
L’elenco delle aspettative deluse è molto lungo e non conviene ribadirlo in questa sede in cui ci si limita a segnalare che si tratta dell’ennesima conferma della predilezione di una tecnica di intervento spot, mirato, quasi chirurgico, forse per assecondare logiche estemporanee, dimenticando quei problemi di base, di tipo strutturale, che si riproducono ogni giorno, dentro e fuori le aule giudiziarie oppure che si presentano quando si tenta di redigere uno strumento contrattuale o di codificazione generale in materia di discriminazioni nei luoghi di lavoro: la separazione del fattore di rischio sesso o genere rispetto agli altri fattori di rischio (età, disabilità, orientamento sessuale, convinzioni personali e religiose, razza e origine etnica).
Tolte le modifiche relative al rapporto sulla situazione del personale (con abbassamento a 50 del numero di dipendenti per cui non si impone l’obbligo, ma si facoltizza la redazione) e la nuova certificazione di genere i cui connotati sono ancora da definire, la modifica più rilevante e immediatamente operativa è quella all’art. 25 del d.lgs. 198/2006 rubricato Discriminazione diretta e indiretta.
La l. 162/2021 entra, modificandolo, nel cuore del diritto antidiscriminatorio sostanziale. Conviene descrivere le modifiche introdotte al fine di comprenderne l’esatta portata.
Praticamente immutato rimane il 1° comma dell’art. 25 che continua a disporre che costituisce «discriminazione diretta, ai sensi del presente titolo, qualsiasi disposizione, criterio, prassi, atto, patto o comportamento, nonché l’ordine di porre in essere un atto o un comportamento, che produca un effetto pregiudizievole discriminando» anche le candidate e i candidati, in fase di selezione del personale (in corsivo la modifica apportata) oltre ai precedenti soggetti già individuati come «lavoratrici o i lavoratori in ragione del loro sesso e, comunque, il trattamento meno favorevole rispetto a quello di un’altra lavoratrice o di un altro lavoratore in situazione analoga».
Più che un’estensione in senso stretto, appare come una mera precisazione quella successiva dedicata ai comportamenti discriminatori contenuta nel comma 2 che ribadisce che si «ha discriminazione indiretta (…) quando una disposizione, un criterio, una prassi, un atto, un patto o un comportamento «compresi quelli di natura organizzativa o incidenti sull’orario di lavoro» (in corsivo le modifiche apportate), apparentemente neutri mettono o possono mettere solo i candidati (mentre non si riprendono le candidate, appena recuperate nel precedente comma 1), in fase di selezione e «i lavoratori di un determinato sesso in una posizione di particolare svantaggio rispetto a lavoratori dell’altro sesso, salvo che riguardino requisiti essenziali allo svolgimento dell’attività lavorativa, purché l’obiettivo sia legittimo e i mezzi impiegati per il suo conseguimento siano appropriati e necessari». Per chi scrive, la locuzione era già ampia al punto tale da includere le modifiche di natura organizzativa o incidente sull’orario di lavoro. Ma di certo la precisazione non guasta. Rassicura l’interprete con una tecnica regolativa che tipizza alcuni profili di illegittimità del comportamento antidiscriminatorio datoriale.
La vera novità è, piuttosto, un’altra, la riscrittura dell’art. 25, comma 2-bis. Il disposto che prevedeva che costituisse «discriminazione, …, ogni trattamento meno favorevole in ragione dello stato di gravidanza, nonché di maternità o paternità, anche adottive, ovvero in ragione della titolarità e dell’esercizio dei relativi diritti», in attuazione della dir. 2006/54, diventa qualcosa di diverso e davvero singolare. Perché dal novembre del 2021, costituisce discriminazione, ai sensi del presente titolo, «ogni trattamento (nda: ci si immagina, che rimanga solo quello meno favorevole) o modifica dell’organizzazione delle condizioni e dei tempi di lavoro che, in ragione del sesso, dell’età anagrafica, delle esigenze di cura personale o familiare, dello stato di gravidanza nonché di maternità o paternità, anche adottive, ovvero in ragione della titolarità e dell’esercizio dei relativi diritti, pone o può porre il lavoratore in almeno una delle seguenti condizioni:
a) posizione di svantaggio rispetto alla generalità degli altri lavoratori;
b) limitazione delle opportunità di partecipazione alla vita o alle scelte aziendali;
c) limitazione dell’accesso ai meccanismi di avanzamento e di progressione nella carriera».
La modifica è impegnativa da commentare in poco spazio: di certo si interviene superando la discriminazione fondata sulla mera genitorialità e l’esercizio del relativi diritti che rappresentava l’importante (e molto utilizzato nelle aule giudiziarie) punto di riferimento e parametro del divieto di discriminazione diretta e indiretta; altrettanto certamente, si modifica il giudizio di comparazione estendendolo alla generalità degli altri lavoratori (orientandolo in modo chiaro: quindi, il termine del giudizio di comparazione è previamente definito dal legislatore e non potrebbe applicarsi solo a coloro che non hanno carichi di cura invece che alla generalità dei lavoratori?).
Avevo considerato quasi salvifica l’aggiunta del 2010 contenuta nel comma 2°bis dell’art. 25 e recuperata nella correzione dell’art. 27, comma 2°, del d.lgs. n. 198/06 in cui già ci si riferiva « allo stato matrimoniale o di famiglia o di gravidanza»: la rilevanza diretta e espressa alla discriminatorietà di «ogni trattamento meno favorevole in ragione dello stato di gravidanza, nonché di maternità e paternità, anche adottive, ovvero in ragione della titolarità e dell’esercizio dei relativi diritti», anche se già ricavabile in via interpretativa dal confronto con l’art. 3 del d.lgs. n. 151/01, era da valutare con estremo favore dato che rafforzava le pretese avanzate nelle aule giudiziarie semplificando le richieste e consentendo di arginare la discrezionalità dei giudici proprio su quell’argomento nel quale si concentra la quasi totalità delle cause attivate e decise davanti alle Corti nazionali. Non deve dimenticarsi, in sede di confronto costante con il diritto UE come in materia antidiscriminatoria, che il testo modificato era ispirato dalla lett. c) dell’art. 2, comma 2°, della dir. 2006/54/CE. In base alla lett. c), la discriminazione comprende «qualsiasi trattamento meno favorevole riservato ad una donna per ragioni collegate alla gravidanza o al congedo per maternità ai sensi della dir. 92/85/CE».
Non ne riproduceva il testo letteralmente, ma ne ampliava in modo davvero condivisibile i contenuti, in un contesto di potenziale applicazione a tutta la genitorialità LGBT+. La nuova formulazione del comma 2 bis consente di reprimere la discriminazione perpetrata nei confronti dei genitori LGBT+? Quel riferimento alla posizione del lavoratore (attualmente o potenzialmente) posto in almeno una delle seguenti condizioni (posizione di svantaggio rispetto alla generalità degli altri lavoratori; limitazione delle opportunità di partecipazione alla vita o alle scelte aziendali; limitazione dell’accesso ai meccanismi di avanzamento e di progressione nella carriera) merita la dovuta attenzione e non è affatto certo che produca un effetto espansivo alla fattispecie discriminatoria. Si spera, almeno, che non ne limiti l’operatività.
La discriminazione vietata in vigore dal novembre 2021 include anche, tra i fattori di rischio, l’età anagrafica e le esigenze di cura personale o familiare. Quale rapporto esiste tra questa nuova nozione di discriminazione e quella contenuta nel d.lgs. 216 del 2003? Le esigenze di cura personale o familiare sono tutte le esigenze o solo quelle rilevanti per il diritto oggi in vigore per i care givers?
Come a dire che la modifica del 2021 propone una soluzione propria al generale problema di sistema della separazione v. omogeneizzazione del trattamento del genere rispetto agli altri fattori di rischio: l’intero processo evolutivo del confronto tra «genere» (caratterizzato da una perdurante specificità legata alla trasversalità di questo fattore) e «altre» discriminazioni (non trasversali, ma sicuramente emergenti nella considerazione dei legislatori e dei giudici) trova una risposta originale. Conviene dedicare nel prossimo futuro, molta attenzione al profilo di coerenza con il diritto UE e di impatto rispetto ad una disposizione ampia e generale applicata o solo applicabile ad un campo di applicazione esteso della genitorialità.
A parere di chi scrive, sarebbe stato preferibile percorrere una strada più meditata verso il superamento del «modello storico» regolativo del genere e delle discriminazioni a questo legate.
Il presupposto su cui si fondano le modifiche è sempre il medesimo: c’era una volta un modello unico e all’avanguardia nel diritto antidiscriminatorio nazionale ed era quello del genere, il metamodello. La moltiplicazione dei fattori di rischio, il percorso giurisprudenziale della Corte di Lussemburgo e il consolidamento dell’apparato istituzionale europeo dopo l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona e un parallelo, progressivo sfaldamento delle regole nazionali avrebbero reso necessario un confronto disincantato con la tenuta di tale modello che, certamente non più unico e quasi altrettanto certamente non più all’avanguardia, dovrebbe misurarsi con alcune vischiosità interpretative e con alcune difese incondizionate di assetti regolativi dati non certo lusinghieri.
Consapevoli che non è solo l’insipienza tecnica e politica del legislatore alla base della difficoltà di trattazione del tema delle pari opportunità nel lavoro, a parere di chi scrive, si conferma che la recente l. 162/2021 concorre ad evidenziare che le pari opportunità si trovano di fronte ad una sorta di crisi d’identità causata dai modificati paradigmi regolativi.
Lo specchio riflesso della questione della nozione di discriminazione, rinvia all’impianto del «pluralismo organizzativo » ribadito dal legislatore del 2021, con forte supporto esterno della contrattazione collettiva, teoricamente rispettoso della ripartizione di competenze tra Stato, regioni e autonomie territoriali, formatasi per stratificazione a partire dagli anni Ottanta, di fatto oggi annientato dal peso dell’indifferenza nei confronti degli organismi di parità, di cui ci si limita a ripetere il bisogno di un rinnovato riconoscimento, anche economico.
Il problema da risolvere, quindi, a chi scrive, sembra decisamente più grave. Perché il modello italiano, confermato negli anni, si sostanzia in una disseminazione di organismi di parità a diversi livelli secondo una logica incrementale, una sorta di risposta nazionale alla questione, mai veramente trattata, dell’authority indipendente in materia di discriminazioni, rispondente principalmente ad un bisogno: evitare il «rischio della perdita di specificità delle discriminazioni di sesso, sia con riguardo alle modalità con le quali esse si manifestano, che alla lunga elaborazione dottrinale e giurisprudenziale che ha accompagnato l’iter storico della loro affermazione in Europa» citando la dottrina che più di ogni altra si è occupata del tema all’inizio degli anni duemila.
Tutto ciò è tanto vero che, in virtù di una interazione distonica tra diritto nazionale e comunitario, l’unica istituzione che risulta accredita presso Equinet (la Rete UE degli organisimi di parità) è l’Unar, in una evidente eterogenesi dei fini della strategia fino ad ora perseguita, o mantenuta, nonostante le evidenti discrepanze e i limiti di funzionamento segnalata da anni dalla dottrina.
Il doppio paradosso che manifesta questa situazione appare insostenibile, anche solo idealmente: dell’Ufficio contro le discriminazioni razziali si discute da anni proprio per l’incerta autonomia e l’indipendenza di azione essendo strutturata presso la Presidenza del Consiglio e il Direttore viene nominato dal Governo in carica; si occupa, con una serie evidente di limiti di un tema veramente scottante, ma esclusivo, la razza e origine etnica e, forse, di discriminazioni religiose.
E la discriminazione per genere, la storica discriminazione, quella relativa all’unico fattore di rischio trasversale, non compare mancando un equality body accreditato, tra i tanti, forse troppi, operanti a livello nazionale.
Torna la solita domanda che la politica non riesce ad affrontare. E se il problema fosse il modello?
Laura Calafà, prof.ssa ordinaria dell’Università di Verona