Reasonable accomodation for the purpose of art. 3 para.3 bis d.lgs. 216/2003: which kind of reasonableness? Case note on Cass. 6497/2021
Il contributo, richiamati sinteticamente gli argomenti posti dalla Corte di legittimità a fondamento della decisione, ne individua l’aspetto di più rilevante novità nel riconoscimento del diritto del lavoratore disabile ad ottenere l’adozione di “adattamenti ragionevoli” dei luoghi e dell’organizzazione di lavoro, idonei a consentirgli lo svolgimento della prestazione in condizioni di sicurezza e di parità, un diritto cui corrisponde un obbligo del datore di lavoro diverso e ulteriore rispetto a quello di repechage. L’autrice esamina quindi l’assunto della Corte secondo cui l’obbligo datoriale di adottare tali soluzioni ragionevoli troverebbe un limite, non solo nei costi sproporzionati degli adattamenti, ma anche nel generale principio di buona fede, di cui sarebbe espressione il riferimento della norma alla categoria della ragionevolezza. Il contributo sottolinea la difficile armonizzazione dell’affermazione con le fonti sovranazionali e il rischio che essa ponga al diritto dei lavoratori disabili un limite ulteriore rispetto a quelli previsti dalla legge; propone quindi una diversa interpretazione, che individui i confini dell’obbligo datoriale esclusivamente nella sproporzione dei costi degli adattamenti oltre che nei diritti dei terzi.
The paper summarizes the arguments elaborate by a recent decision of the Italian Supreme Court on the recognition of the right of workers with disability to be granted the adoption of “reasonable accommodation” in addition to the employer’s compliance with the obligation to repechage. The Author focuses on the Court’s assumption that the employer’s obligation to adopt such reasonable solutions should not exceed not only the proportionality of the costs, but also the general principle of good faith. The contribution underlines the difficult harmonization of such claim with supranational sources and the risk that it may furtherly limit the right of disabled workers. An alternative interpretation is suggested, identifying the boundaries of the employer’s obligation exclusively in the disproportion of the costs of adaptations, as well as in the rights of third parties.
La Corte di Cassazione torna ad occuparsi del licenziamento intimato per impossibilità sopravvenuta al lavoratore disabile divenuto inabile alle mansioni con la sentenza 6497 del 9 marzo 2021, ultima di una serie di pronunce sullo stesso tema, tutte molto recenti (si vedano in particolare Cass. 6798/2018; Cass. 27243/2018; Cass. 13649/2019; Cass., 6678/2019; Cass. 18556/2019 e Cass., 34132/2019).
E lo fa, come risulta evidente dall’ampiezza e dalla complessità della motivazione, nell’intento di assumere un arresto ragionevolmente stabile, indispensabile a fronte delle difficili scelte che spettano ai giudici di merito in questa materia, e a fronte di difformità significative, non espressamente rilevate, ma in fatto incontestabili, esistenti nella giurisprudenza precedente del Giudice di legittimità (come è piuttosto chiaro ove si confronti il percorso motivazionale e il decisum di Cass. 6798/2018 con quelli di Cass. 27243/2018).
Per comprendere le ragioni della decisione può essere utile richiamare, seppure in modo estremamente sintetico, le fonti di riferimento.
In primo luogo la nozione di handicap che rileva al fine dei divieti e degli obblighi imposti dal D.Lgs. 216/2003, e che è nozione di diritto dell’Unione, ricostruibile cioè solo dalle fonti sovranazionali e non dal diritto interno (come affermato nella giurisprudenza nazionale, a partire da Cass. 6798/2018, ma prima in quella della Corte di Giustizia; cfr. CGUE, 11 luglio 2006, C13/05, Chacon Navas, che contiene una prima enunciazione della nozione di handicap).
Una nozione che, come è noto, coglie gli aspetti sociali e relazionali della disabilità, in accordo con la definizione contenuta nell’art. 1 comma 2 della Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità (UNCRPD) del 2006, che qualifica disabili coloro che “hanno minorazioni fisiche, mentali intellettuali o sensoriali a lungo termine che in interazione con varie barriere possono impedire la loro piena ed effettiva partecipazione nella società su una base di eguaglianza con gli altri“.
Dopo la ratifica della Convenzione da parte dell’Unione Europea (avvenuta con la decisione 2010/48) e richiamandone il contenuto, la Corte di Giustizia, nella decisione, 11.4.2013, HK Danmark C-335/2011, ha infatti affermato che la nozione di «handicap» debba “essere intesa nel senso che si riferisce ad una limitazione, risultante in particolare da menomazioni fisiche, mentali o psichiche, che, in interazione con barriere di diversa natura, può ostacolare la piena ed effettiva partecipazione della persona interessata alla vita professionale su base di uguaglianza con gli altri lavoratori. Inoltre, dall’articolo 1, secondo comma, della Convenzione dell’ONU risulta che le menomazioni fisiche, mentali, intellettuali o sensoriali debbano essere «durature»”.
E la successiva giurisprudenza della Corte di Giustizia ha chiarito come la disabilità “si riferisce non soltanto ad un’impossibilità di esercitare un’attività professionale, ma altresì ad un ostacolo a svolgere una simile attività” (così Corte di Giustizia, 18.12.2014, causa C-354/13, FOA e giurisprudenza ivi citata), senza che rilevi l’origine dell’handicap, così che “se una malattia, curabile o incurabile, comporta una limitazione, risultante in particolare da menomazioni fisiche, mentali o psichiche, che, in interazione con barriere di diversa natura, può ostacolare la piena ed effettiva partecipazione della persona interessata alla vita professionale su base di uguaglianza con gli altri lavoratori e se tale limitazione è di lunga durata, una siffatta malattia può ricadere nella nozione di «handicap» ai sensi della direttiva 2000/78” (così Corte di Giustizia, 11.4.2013, cause riunite C-335/11 e C337/11).
E’ poi l’art. 5 della direttiva 2000/78 a disporre che “per garantire il rispetto del principio della parità di trattamento dei disabili, sono previste soluzioni ragionevoli. Ciò significa che il datore di lavoro prende i provvedimenti appropriati, in funzione delle esigenze delle situazioni concrete, per consentire ai disabili di accedere ad un lavoro, di svolgerlo o di avere una promozione o perché possano ricevere una formazione, a meno che tali provvedimenti richiedano da parte del datore di lavoro un onere finanziario sproporzionato…“. Mentre il ventesimo considerando della direttiva impone ai datori di lavoro l’introduzione di “misure appropriate, ossia misure efficaci e pratiche destinate a sistemare il luogo di lavoro in funzione dell’handicap, ad esempio sistemando i locali o adattando le attrezzature, i ritmi di lavoro, la ripartizione dei compiti o fornendo mezzi di formazione o di inquadramento”, e il ventunesimo chiarisce che “per determinare se le misure in questione danno luogo a oneri finanziari sproporzionati, è necessario tener conto in particolare dei costi finanziari o di altro tipo che esse comportano, delle dimensioni e delle risorse finanziarie dell’organizzazione o dell’impresa e della possibilità di ottenere fondi pubblici o altre sovvenzioni”.
E’ noto che l’Italia non ha dato tempestiva attuazione a queste disposizioni e la Corte di Giustizia ha accertato la violazione, su ricorso della Commissione Europea, con la sentenza 4 luglio 2013, Commissione/Repubblica Italiana.
In esito con il D.L. 28.6.2013 n. 76, convertito con modificazioni nella L. 9.8.2013, il legislatore nazionale ha inserito nel D.Lgs. 216/2003, all’art. 3, un comma 3 bis, a norma del quale “Al fine di garantire il rispetto del principio della parità di trattamento delle persone con disabilità, i datori di lavoro pubblici e privati sono tenuti ad adottare accomodamenti ragionevoli, come definiti dalla Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, ratificata ai sensi della L. 3 marzo 2009, n. 18, nei luoghi di lavoro, per garantire alle persone con disabilità la piena eguaglianza con gli altri lavoratori. I datori di lavoro pubblici devono provvedere all’attuazione del presente comma senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica e con le risorse umane, finanziarie e strumentali disponibili a legislazione vigente“.
La decisione che si commenta si richiama al testo della norma, sottolineando come il legislatore abbia scelto di trasporre nell’ordinamento interno la formula delle fonti sovranazionali, in dichiarata attuazione della direttiva n. 78/2000/CE, “affidandosi ad una nozione a contenuto variabile … che ha come caratteristica strutturale proprio l’indeterminatezza”, così che spetta necessariamente all’interprete “individuare lo specifico contenuto dell’obbligo, guidato dalle circostanze del caso concreto”.
Si tratta, secondo la Corte, di adeguamenti latamente organizzativi che il datore di lavoro ha l’obbligo di realizzare al fine di “garantire il principio della parità di trattamento dei disabili” e che si caratterizzano per la loro “appropriatezza”, ovvero per la loro idoneità a consentire ai lavoratori disabili di svolgere l’attività lavorativa.
E l’obbligo di adottare tali adeguamenti – la decisione impugnata lo afferma inequivocamente – concorre a delimitare il legittimo esercizio del potere datoriale di recedere dal rapporto in essere per ragioni legate alla disabilità del dipendente, disabilità che tipicamente lo renda non più idoneo allo svolgimento delle mansioni attribuitegli, ed è obbligo che si aggiunge, non si sovrappone a quello di repechage.
Si tratta di una conclusione cui del tutto condivisibilmente il Giudice di legittimità perviene dando una piana lettura del disposto dell’art. 5 della direttiva.
Infatti, poiché le mansioni accessibili per i lavoratori disabili devono individuarsi anche in relazione all’obbligo di adottare ragionevoli accomodamenti, ne risulta di conseguenza ridimensionata l’area della impossibilità sopravvenuta della prestazione e, o anche, per converso, ampliato il novero delle posizioni professionali utilmente assegnabili al lavoratore disabile, in quanto individuabili solo in esito ai disposti ragionevoli accomodamenti.
La Corte chiarisce infatti che “l’impossibilità di ricollocare il disabile, adibendolo a diverse mansioni comunque compatibili con il suo stato di salute, non esaurisce gli obblighi del datore di lavoro che intenda licenziarlo, perchè, laddove ricorrano i presupposti di applicabilità del D.Lgs. n. 216 del 2003, art. 3, comma 3 bis, dovrà comunque ricercare possibili “accomodamenti ragionevoli” che consentano il mantenimento del posto di lavoro”. Così che “a fronte del lavoratore che deduca e provi di trovarsi in una condizione di limitazione, risultante da menomazioni fisiche, mentali o psichiche durature secondo il diritto dell’Unione Europea, quale fonte dell’obbligo datoriale di ricercare soluzioni ragionevoli che potessero evitare il licenziamento causato dalla disabilità, graverà sul datore di lavoro l’onere di provare di aver adempiuto all’obbligo di “accomodamento” ovvero che l’inadempimento sia dovuto a causa non imputabile”. E in tale situazione “non è certo sufficiente per il datore semplicemente allegare e provare che non fossero presenti in azienda posti disponibili in cui ricollocare il lavoratore, come si trattasse di un ordinario repechage, così creando una sovrapposizione con la dimostrazione, comunque richiesta, circa l’impossibilità di adibire il disabile a mansioni equivalenti o inferiori compatibili con il suo stato di salute”.
E’ certo un mutamento significativo rispetto ai principi affermati in questa materia dalla giurisprudenza con orientamento consolidato, almeno a partire dalla decisione n. 7755/1998 delle Sezioni Unite.
In quella pronuncia infatti le Sezioni Unite, nel ricercare un punto di equilibrio fra libertà di impresa e diritto del lavoratore al lavoro e alla salute, avevano ritenuto che restasse comunque prerogativa del datore di lavoro “l’autodeterminazione circa il dimensionamento e la scelta del personale da impiegare nell’azienda ed il conseguente profilo dell’organizzazione interna della medesima” e che l’imprenditore potesse perciò legittimamente rifiutare l’assegnazione del lavoratore divenuto inabile alle mansioni a lui attribuite, se ne fosse derivato un aggravio organizzativo (il riferimento espresso della sentenza è al trasferimento di altri dipendenti).
In contrario, e il Giudice di nomofilachia lo afferma oggi espressamente e con nettezza, l’obbligo di adottare accomodamenti ragionevoli, che la direttiva pone a carico del datore di lavoro, nega l’assolutezza del principio di intangibilità dell’organizzazione d’impresa, così che al giudice spetterà verificare l’adempimento dell’obbligo (e quindi l’inesistenza o impraticabilità di idonei “accomodamenti”) o invece la sua violazione.
E la Corte afferma ancora come l’onere di allegare e provare l’esatto adempimento gravi interamente sul datore di lavoro, non spettando “al lavoratore, o tanto meno al giudice, individuare in giudizio quali potessero essere le possibili modifiche organizzative appropriate e ragionevoli idonee a salvaguardare il posto di lavoro, sovvertendo l’onere probatorio e richiedendo una collaborazione nella individuazione degli accomodamenti possibili non prevista neanche per il repechage ordinario in mansioni inferiori”.
Una diversa soluzione, che attribuisse al lavoratore un qualsiasi onere, non evidentemente di indicazione della natura delle proprie minorazioni e quindi delle specifiche esigenze di protezione, ma delle soluzioni organizzative adeguate, realizzerebbe, infatti, scrive ancora la Corte, una divaricazione tra oneri di allegazione e prova, già ritenuta inappropriata in materia di repechage da Cass. 5592/2016, altererebbe surrettiziamente l’onere sancito dall’art. 5 della L. n. 604 del 1966 e si scontrerebbe con “il principio di riferibilità o vicinanza della prova di fatti attinenti ad una organizzazione aziendale rispetto alla quale il lavoratore è estraneo”.
. La Corte si occupa poi dei limiti dell’obbligo gravante su datore di lavoro, individuandone i confini sotto due profili: il “limite espresso della sproporzione del costo” e “quello dell’aggettivo che qualifica l’accomodamento come ragionevole”.
Quest’ultimo è per la Corte un “limite ulteriore perché dotato di autonoma valenza letterale, atteso che se l’unica ragione per esonerare il datore di lavoro dal porre in essere l’adattamento, fosse l’onere “sproporzionato”, allora non sarebbe stato necessario aggiungere il “ragionevole”.
Così che “se può sostenersi che ogni costo sproporzionato, inteso nella sua accezione più ampia di “eccessivo” rispetto alle dimensioni ed alle risorse finanziarie dell’impresa, renda l’accomodamento di per sé irragionevole, non è necessariamente vero il contrario, perché non può escludersi che, anche in presenza di un costo sostenibile, circostanze di fatto rendano la modifica organizzativa priva di ragionevolezza, avuto riguardo, ad esempio, all’interesse di altri lavoratori eventualmente coinvolti”.
La pronuncia conclude quindi che “potrà dirsi ragionevole ogni soluzione organizzativa praticabile che miri a salvaguardare il posto di lavoro del disabile in un’attività che sia utile per l’azienda e che imponga all’imprenditore, oltre che al personale eventualmente coinvolto, un sacrificio che non ecceda i limiti di una tollerabilità considerata accettabile secondo “la comune valutazione sociale”, la cui misura è rappresentata dal principio generale di buona fede.
Principio che la Corte assume, secondo la propria consolidata giurisprudenza, come criterio di determinazione della prestazione contrattuale, che impone a ciascuna delle parti di agire in modo da preservare gli interessi dell’altra a prescindere sia da specifici obblighi contrattuali, sia dal dovere extracontrattuale del neminem laedere, nei limiti di un apprezzabile sacrificio a carico dell’agente.
Nella specie si tratterà quindi, secondo il Giudice di legittimità, di valutare gli interessi giuridicamente rilevanti di tutte le parti: l’interesse del lavoratore disabile alla conservazione del posto di lavoro, quello del datore di lavoro a garantirsi comunque una prestazione utile, l’interesse di eventuali altri dipendenti coinvolti.
. La ricostruzione della ragionevolezza come limite ulteriore dell’obbligo datoriale è probabilmente il punto più complesso e critico della pronuncia, che non pare confrontarsi compiutamente con le fonti sovranazionali, che pure (e lo ricorda anche la sentenza) il legislatore nazionale ha scelto di richiamare direttamente al comma 3 bis dell’art. 3 del D.L.gs 216/2003.
Infatti, poiché la legge assume la definizione di accomodamenti ragionevoli propria della Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità (in tal senso il tenore testuale del comma 3 bis dell’art. 3, sopra riportato), è necessario concludere che essa rimandi anche ai Commenti generali (general recommendations) forniti dal Comitato sui diritti delle persone con disabilità, istituito dall’art. 34 della convenzione, con la funzione di monitorare la sua attuazione da parte degli Stati contraenti e di formulare linee guida e raccomandazioni.
Ora nel General comment n. 6 on equality and non – discrimination al punto 25 lett. a) il Comitato esclude espressamente che la ragionevolezza degli accomodamenti costituisca “an exception clause”, “a distinct qualifier or modifier to the duty”. Al punto richiamato si legge infatti: “Reasonable accommodation is a single term, and “reasonable” should not be misunderstood as an exception clause; the concept of “reasonableness” should not act as a distinct qualifier or modifier to the duty. It is not a means by which the costs of accommodation or the availability of resources can be assessed — this occurs at a later stage, when the “disproportionate or undue burden” assessment is undertaken. Rather, the reasonableness of an accommodation is a reference to its relevance, appropriateness and effectiveness for the person with a disability. An accommodation is reasonable, therefore, if it achieves the purpose (or purposes) for which it is being made, and is tailored to meet the requirements of the person with a disability”.
Secondo l’interpretazione assunta dal Comitato quindi la ragionevolezza degli accomodamenti ne esprime unicamente l’appropriatezza rispetto all’interesse della persona disabile, mentre il limite dell’obbligo resta segnato esclusivamente dallo sforzo sproporzionato per l’obbligato, un limite che nel diritto dell’Unione, secondo la testuale previsione dell’art. 5 della direttiva 2000/78, è rappresentato, più specificamente, dalla sproporzione dell’“onere finanziario” (determinato, secondo il ventunesimo considerando della direttiva tenendo conto “in particolare dei costi finanziari o di altro tipo” determinati dalle misure, “delle dimensioni e delle risorse finanziarie dell’organizzazione o dell’impresa e della possibilità di ottenere fondi pubblici o altre sovvenzioni”).
Il Giudice di legittimità sembra quindi aver introdotto una condizione ulteriore all’attuazione del principio paritario, estranea al contenuto delle norme sovranazionali, addizione più rischiosa sul piano pratico-applicativo per essere evidentemente la ragionevolezza degli accomodamenti, nel senso inteso dalla Corte, concetto molto più evanescente di quello della sproporzione dei costi.
In contrario, attenendosi strettamente ai confini segnati dalle norme sovranazionali, l’ambito dell’obbligo risulta ben più nitido, in quanto l’interesse del datore di lavoro, contrapposto a quello del lavoratore disabile, appare adeguatamente tutelato, da un lato dall’espresso riconoscimento del suo diritto ad attendersi comunque dalla prestazione del lavoratore un risultato utile (di cui dice il diciassettesimo considerando della Direttiva 2000/78), dall’altra dal richiamo alla sproporzione dei costi, per essere quello dei costi un dato oggettivo e appropriato al fine di misurare l’utilità e il sacrificio di un’azione in un’organizzazione legittimamente diretta alla realizzazione di profitti, quale è l’impresa.
Quanto alla posizione dei terzi coinvolti dalle scelte aziendali (i colleghi del lavoratore disabile essenzialmente, di cui fa menzione anche la sentenza in commento) è di una certa evidenza che i loro diritti (i diritti nascenti dai loro rapporti di lavoro) segnino, non diversamente dall’impraticabilità materiale degli accomodamenti, il limite della loro impraticabilità giuridica.
Così non sarebbe certo soluzione ragionevole il demansionamento di altri dipendenti, mentre potrebbe esserlo, come del resto espressamente previsto dal ventesimo considerando della direttiva, un diverso riparto delle mansioni (che per esempio ne sottragga alcune ai colleghi del disabile per assegnarle a lui o per contro ripartisca tra i colleghi quelle incompatibili con la disabilità già assegnate al lavoratore portatore di handicap) tale da non ledere il diritto dei lavoratori terzi alla professionalità. Uno spazio questo, merita rammentarlo, reso più ampio dal nuovo testo dell’art. 2103 c.c., che non assegna più all’equivalenza delle mansioni la funzione di limite dello jus variandi, così obiettivamente riducendo il contenuto del diritto dei lavoratori alla conservazione della professionalità acquisita.
Già così inteso si tratta di un limite segnato da norme generali, quali appunto il disposto dell’art. 2103 c.c. (nel testo tempo per tempo vigente) e quindi un confine elastico e affidato a valutazioni necessariamente complesse. Tuttavia in questo ambito l’opera dell’interprete può comunque avvalersi della lunga elaborazione giurisprudenziale relativa alla norma codicistica e ai limiti dello jus variandi del datore di lavoro privato e pubblico.
In contrario un sindacato di ragionevolezza degli accomodamenti che si muova oltre gli spazi segnati dai confini accettabilmente obiettivi della sproporzione dei costi per l’impresa e dei diritti dei terzi rischia di introdurre nel sistema un elemento di incertezza potenzialmente idoneo a comprimere gli spazi di tutela dei diritti dei disabili, invece loro assicurati dal diritto dell’Unione e a ridurre l’effettiva novità di una pronuncia pure per altri aspetti assai rilevante.
Elisabetta Tarquini, Consigliera presso la Corte d’Appello di Firenze