Fulton et al. v. City of Philadelphia, Pennsylvania et al.: U.S. Supreme Court faces, without definitely solving, the conflict between religious freedom and protection against discrimination on the ground of sexual orientation
Il caso Fulton, deciso all’unanimità dalla Corte Suprema, concerne il diritto di un’organizzazione non profit cattolica, che fornisce servizi nell’ambito dell’affidamento di soggetti minori alle sole coppie eterosessuali sposate, di essere esentata dagli obblighi derivanti dal principio di non discriminazione per l’orientamento sessuale che le imporrebbero di estendere anche alle coppie omosessuali sposate i suoi servizi. Benchè la Corte abbia riconosciuto le ragioni dell’organizzazione cattolica, l’opinione di maggioranza non ha affrontato la questione del conflitto costituzionale tra il principio di non discriminazione e la libertà religiosa sancita nel I emendamento. La diversità di approcci emersa nelle diverse opinioni rese suggerisce che questo profilo sia divisivo anche tra i giudici ritenuti conservatori.
The Fulton case, decided by a unanimous US Supreme Court, deals with the right of a Catholic non-profit organization, which provides foster care services to heterosexual married couples, to be exempted on religious grounds from the obligation to provide its services without discriminating against homosexual couples. While granting relief to the Catholic organization, the Opinion of the Court did not address the issue of the constitutional clash between the non-discrimination principle on the ground of sexual orientation and the first Amendment’s free exercise clause. The different legal reasonings that emerged in the Justices’ Opinions suggest this issue is controversial and divisive even within the conservative side of the court.
Di primo acchito, la sentenza Fulton et al. v. City of Philadelphia della Corte Suprema USA, che qui si commenta, sembra di assoluto interesse. Non solo perché essa è stata resa, almeno nella sua parte dispositiva, all’unanimità, da un collegio giudicante al suo interno sempre più diviso in merito al metodo ermeneutico più idoneo da seguire circa la corretta interpretazione del testo costituzionale[1], ma anche perché tale unanimità ha riguardato un argomento assolutamente divisivo nella odierna società americana (e non solo): il riconoscimento, per via giudiziale e basato sulla Free Exercise Clause di cui al I Emendamento, del diritto all’obiezione di coscienza, o di un’esenzione per motivi religiosi, in relazione all’obbligo di non discriminare le coppie omosessuali quanto all’accesso ad attestazioni e/o certificazioni pubbliche (nella specie, la certificazione di idoneità per l’affido di soggetti minorenni).
In realtà, un esame più approfondito della vicenda rivela un risultato più modesto: sebbene la sentenza sia, come detto, risultata favorevole all’esercizio della libertà religiosa e sfavorevole ai principi di eguaglianza e non discriminazione, non sembra che da essa possano desumersi indicazioni sistemiche in merito alla risoluzione del potenziale conflitto tra i due interessi costituzionalmente rilevanti. Una decisione interlocutoria, dunque, che pure mostra nelle diverse argomentazioni che strutturano l’opinione di maggioranza[2] e quelle concorrenti[3] significativi elementi di interesse che, si ritiene, non tarderanno a riemergere in un futuro non lontano.
I fatti prima di tutto. L’amministrazione della città di Philadelphia affida a soggetti privati del terzo settore, mediante convenzione, il compito di certificare l’idoneità delle coppie di ricevere in affido familiare minori d’età. La Catholic Social Services (CSS) è un ente di ispirazione religiosa cattolica che presta tale servizio da più di cinquant’anni, proseguendo una tradizione avviata dalla Chiesa cattolica nella città di Philadelphia che risale alla fine del ‘700. Adeguandosi ai principi dottrinali della Chiesa cattolica in merito alla natura sacramentale del matrimonio quale unione tra uomo e donna, la CSS rifiuta di vagliare l’idoneità all’affido familiare di coppie omosessuali sposate, nonché di coppie non sposate, eterosessuali o omosessuali che siano. Di fatto, nessuna coppia omosessuale si è mai rivolta al CSS. Non ve ne è necessità: sono una ventina gli enti di diversa ispirazione ideologica che prestano tale servizio e che non oppongono ragioni di carattere religioso alla certificazione all’idoneità delle coppie omosessuali.
A seguito, tuttavia, di un servizio giornalistico, la prassi seguita dalla CSS diventa di dominio pubblico. Di qui la decisione dell’amministrazione comunale di recedere dalla convenzione che la legava alla CSS: il comportamento di quest’ultima si pone in contrasto con una clausola che impone ai fornitori del servizio di non discriminare le famiglie potenzialmente affidatarie per ragioni legate (anche) all’orientamento sessuale. Inoltre, il comportamento dell’ente religioso infrangerebbe un’ordinanza locale che impone il divieto di discriminare per motivi legati all’orientamento sessuale nella fornitura di beni e servizi al pubblico.
La decisione dell’amministrazione comunale, impugnata dalla CSS perché ritenuta lesiva della Free Exercise Clause del I Emendamento, viene giudicata corretta sia dalla Corte distrettuale sia dalla Corte d’appello. Non così, invece, dalla Corte Suprema, che ha reputato che il recesso dalla convenzione da parte dell’amministrazione pubblica rappresenti una violazione della libertà religiosa della CSS.
Da un punto di vista di diritto costituzionale statunitense, la questione controversa, e peraltro rimasta inevasa, nonostante la Corte Suprema avesse garantito sul punto il riesame di legittimità, ruotava attorno al superamento del precedente Employment Division v. Smith[4], su cui è necessario spendere qualche parola di approfondimento.
Negli anni ’60 e ’70 la Corte Suprema, in un periodo storico di particolare attenzione verso i diritti delle minoranze, aveva elaborato una nuova giurisprudenza in materia di Free Exercise Clause. Dapprima in Sherbert v. Verner[5] e poi nel forse più noto Wisconsin v. Yoder[6], relativo all’esenzione dall’obbligo della frequenza scolastica degli appartenenti alla comunità religiosa Amish che avessero compiuto i quattordici anni di età, la Corte stabilì che ogni disposizione normativa o atto amministrativo, che determini, in concreto, un onere effettivo (substantial burden) all’esercizio della libertà di culto per gli appartenenti ad una data religione, dovesse essere sottoposto allo strict scrutiny test, e ciò, si badi bene, anche se la norma o atto amministrativo fossero di generale applicazione e neutrale rispetto al fattore religioso. L’amministrazione o il legislatore avrebbero dovuto dimostrare in tali ipotesi, qualificabili come discriminazioni indirette, che la misura in questione fosse strettamente necessaria per soddisfare un obiettivo di interesse pubblico prioritario (compelling interest).
Tuttavia, tale giurisprudenza è stata successivamente riveduta dalla Corte Suprema nella controversa sentenza Employment Division v. Smith. Quest’ultima, pur formalmente non dichiarando l’overrulling dei due casi in precedenza citati, ne ha tuttavia attenuato in modo sostanziale la portata. Secondo Smith, infatti, laddove la disciplina normativa sia neutrale rispetto al fattore religioso e di applicazione generale, essa soggiace a un blando rational test, nonostante si determini, come effetto indiretto, un onere sostanziale all’esercizio della libertà religiosa nei confronti degli appartenenti ad una particolare religione.
Con Smith, dunque, la Corte negò che la free exercise clause potesse essere violata in modo indiretto da leggi non finalizzate in modo precipuo a incidere sull’esercizio della libertà religiosa. In questo senso, lo standard utilizzato per valutare la violazione della libertà religiosa venne sostanzialmente equiparato a quello usato nel contesto del giudizio antidiscriminatorio nei casi di violazione dell’equal protection clause. In tale ambito, infatti, a partire dalla sentenza Washington v. Davis[7], la Corte Suprema ha chiarito che non si ha violazione costituzionale del XIV emendamento qualora la misura, pur determinando un evidente svantaggio rispetto agli appartenenti a un dato gruppo sociale protetto, sia formalmente neutrale rispetto al fattore in questione[8]. Perché si abbia una violazione del principio di non discriminazione, come sancito a livello costituzionale, è necessario dimostrare la natura diretta e intenzionale dell’atto, attraverso una comparazione del trattamento ricevuto dal soggetto asseritamente leso e quello di un altro individuo in posizione simile al primo, fatta eccezione per l’assenza del fattore discriminatorio tutelato. Dunque, solo una norma che creasse esplicitamente una disparità di trattamento a causa della religione, differenziando tra una condotta motivata religiosamente ed una laica, sarebbe in contrasto con il I Emendamento e il diritto alla libertà religiosa ivi sancito.
Tuttavia, Smith, al fine di riconciliarsi con i precedenti Sherbert e Yoder, aveva individuato due ipotesi in cui lo strict scutiny test avrebbe dovuto continuare ad applicarsi: la prima si ha laddove la legge, pur generale e neutrale rispetto al fattore religioso, lasci, tuttavia, all’amministrazione un margine di discrezionalità che consentirebbe a quest’ultima di introdurre deroghe all’applicazione della regola generale e, dunque, per tale via, a riconoscere un’esenzione alle minoranze religiose[9].
La seconda ipotesi ricorrerebbe, invece, allorquando la misura neutrale incida non solo sul diritto alla libertà religiosa, ma anche su un altro diritto fondamentale. Questo schema riguardava, ad esempio, il caso Yoder dove, accanto alla sfera della libertà religiosa, si profilava anche un possibile contrasto con il diritto dei genitori alla scelta in materia di istruzione scolastica dei figli. Come si vedrà, proprio la prima delle due situazioni si rivelerà centrale per l’odierna decisione della Corte.
La sentenza Smith fu accolta da una ferma opposizione. Come reazione, il Congresso nel 1993 approvò quasi all’unanimità il Religious Freedom Restauration Act (RFRA), che segnò uno dei momenti di più alta tensione tra il legislativo e il giudiziario. Con questa legge, infatti, il Congresso intese ristabilire lo strict scrutiny test, sia pure a livello legislativo e non ovviamente costituzionale, in relazione ad ogni normativa o atto amministrativo che, pur neutrale rispetto al fattore religioso, determinasse, nei fatti, un sostanziale ostacolo (substantial burden) all’esercizio della libertà religiosa di un dato gruppo. L’RFRA avrebbe dovuto vincolare tanto l’amministrazione federale quanto quelle statali, ma la decisione della Corte Suprema in City of Boerne v. Flores (1997) decretò che il Congresso non aveva la competenza per legiferare in modo vincolante per gli Stati. Ciononostante, sono ventuno gli Stati che hanno oggi introdotto una disciplina assimilabile a quella del RFRA (sul punto, per ulteriori indicazioni vedi Lingo B.J., Schietzelt M.G. 2021, 18 ss).
Se dunque negli anni ’90 la sentenza Smith venne vista come un attacco frontale ai diritti delle minoranze religiose e giustificò lo schierarsi di ampia parte della società civile, oltre che del monto politico, contro quella che appariva una decisione conservatrice e incline a mantenere una posizione di privilegio delle religioni storicamente consolidate negli USA, tutt’altro è lo scenario odierno in cui si colloca la decisione Fulton (sulla cd. culture war, cfr. Laycock 2014, 839).
La sentenza Obergefell v. Hodges[10], in cui la Corte ha riconosciuto l’esistenza di un diritto costituzionale federale al matrimonio per le coppie omosessuali, applicabile a tutti gli Stati dell’Unione, così come la riforma sanitaria di Obama, che ha imposto ai datori di lavoro di fornire ai lavoratori coperture assicurative sanitarie estese anche ai dispositivi contraccettivi, hanno fatto emergere evidenti linee di frattura rispetto al credo di gruppi religiosi più tradizionali e maggioritari, i quali hanno rivendicato un diritto all’obiezione di coscienza che consenta, ai loro appartenenti, di sottrarsi agli obblighi generalmente imposti dalla legge.
Se, in relazione all’obbligo della copertura assicurativa, tale diritto all’esenzione religiosa è stato ritenuto fondato, sia pure sulla base del RFRA e non della free exercise clause[11], la Corte Suprema non ha ancora preso una posizione chiara sul primo profilo[12].
In tale contesto, il precedente Smith è divenuto l’ostacolo principale per chi rivendica un diritto di esenzione, fondato sul I Emendamento, al fine di sottrarsi agli obblighi derivanti dal principio di parità di trattamento in relazione alle coppie omosessuali. Una norma che vietasse di discriminare le coppie omosessuali, nella fornitura di servizi, e che non prevedesse deroghe alla sua applicazione si caratterizzerebbe, ai sensi del precedente Smith, come una legge neutrale rispetto alla religione e di generale applicazione e sarebbe perciò soggetta al blando rational test, e non allo strict scrutiny, nonostante essa impatti sull’esercizio della libertà religiosa di taluni gruppi.
Questa lunga premessa può aiutare a capire perché il caso Fulton abbia già attirato l’attenzione della dottrina e abbia giustificato la partecipazione in qualità di amici curiae di un numero assai elevato di associazioni e interventori a titolo personale[13].
La decisione della Corte è stata, tuttavia, come si diceva in apertura, piuttosto interlocutoria. La maggioranza dei giudici ha convenuto sul fatto che, per la risoluzione della controversia, non fosse necessario rivedere il precedente Smith, potendo una corretta applicazione di quest’ultimo condurre comunque ad applicare il test più stringente, quale quello elaborato in Sherbert e Yoder.
Secondo l’opinione di maggioranza, infatti, la clausola contrattuale, con la quale l’amministrazione impone ai propri contraenti la parità di trattamento, anche in ragione dell’orientamento sessuale, non può ritenersi di applicazione generale, secondo l’insegnamento dato in Smith. La sua formulazione testuale è tale, infatti, da riservare all’amministrazione la possibilità, del tutto discrezionale, di concedere delle deroghe[14].
Poco importa, per la Corte, che la possibilità in questione non sia mai stata utilizzata. L’astratta applicabilità della clausola è sufficiente a imporre all’amministrazione comunale una giustificazione forte (strict scrutiny) del perché essa non l’abbia utilizzata al fine di accomodare la libertà religiosa di CSS[15].
La Corte osserva, a riguardo, che certamente l’obiettivo di garantire e promuovere la parità di trattamento è configurabile come un interesse pubblico importante (weighty) e significativamente la Corte riporta un passaggio del caso Masterpiece Cakeshop per sottolineare che «our society has come to the recognition that gay persons and gay couples cannot be treated as social outcasts or as inferior in dignity and worth».
Tuttavia, per i giudici, la questione non riguarda tanto se l’interesse a promuovere una politica antidiscriminatoria in ragione dell’orientamento sessuale sia a tal punto preminente da giustificare un divieto assoluto di accomodamento delle istanze religiose contrarie ad esso. Piuttosto, il tema è se sia strettamente necessario, al fine di perseguire tale interesse pubblico, negare un’esenzione per motivi religiosi, nel momento in cui l’amministrazione stessa si sia riservata la possibilità di dispensare dall’obbligo alla parità di trattamento, pur non specificando le circostanze in cui fare uso di tale facoltà (criticamente su questo aspetto, v. Lupu I.C., Tuttle R.W. 2021). Detto in altri termini, l’amministrazione comunale non ha soddisfatto il test di proporzionalità, dimostrando in che modo il garantire alla CSS un diritto di esenzione avrebbe seriamente compromesso il perseguimento dell’obiettivo della promozione della parità di trattamento, visto che la stessa amministrazione ha qualificato tale interesse non come assoluto, ma soggetto a potenziali eccezioni.
Nel giudizio di proporzionalità, la Corte sembra dare rilievo anche al fatto che la CSS e, in precedenza, la Chiesa cattolica abbiano a lungo prestato per la città un servizio di cura dei minori abbandonati. Inoltre, conta anche la circostanza che, attraverso la richiesta di un diritto di esenzione su base religiosa, la CSS non cerchi di imporre a nessuno le sue visioni di vita, ma solo di vivere in modo coerente con esse.
Sebbene, come detto, tutti i giudici si siano dichiarati concordi a livello di dispositivo, è in relazione alle motivazioni che la Corte si è ritrovata insolitamente divisa lungo tre assi.
Una parte, infatti, dei giudici cd. “conservatori” e inclini, sul piano dell’ermeneutica, ad un approccio favorevole all’interpretazione letterale e “originalista” ha criticato l’opinione di maggioranza per non aver affrontato la questione del superamento del precedente Smith. Secondo S. Alito, autore di una lunga e assai elaborata opinion, la storia costituzionale, la prassi seguita dagli Stati prima dell’inserimento nella Costituzione federale del I emendamento nel 1791, il dato testuale di quest’ultimo e la sistematica costituzionale lascerebbero intendere che la free exercise clause possa ritenersi violata ogniqualvolta l’intervento pubblico determini un impatto serio sull’esercizio della libertà religiosa e ciò a prescindere dal fatto che la norma sia formulata in termini neutrali e sia di applicazione generale o sia, invece, specificamente rivolta a restringere l’esercizio della libertà di culto. In entrambi i casi, si dovrebbe comunque applicare lo strict scrutiny test e affidare al giudice, di fatto, la relativa ponderazione degli interessi.
Su una posizione più sfumata – benché collocati o collocabili fra i conservatori designati da D.J. Trump – si pongono, invece, i giudici A.C. Barrett e B. Kavanaugh. La prima, oltre a sottoscrivere l’opinione di maggioranza, è autrice di una concurring opinion sottoscritta da B. Kavanaugh e in parte anche da S. Breyer. I primi due giudici sono convinti che Smith non sia più una decisione adeguata, nella misura in cui applica al diritto alla libertà religiosa lo stesso standard di giudizio che viene applicato all’equal protection clause, disconoscendo dunque il rilievo specifico che la Costituzione statunitense attribuisce a tale diritto. Essi, però, rimangono incerti quanto all’individuazione di una corretta alternativa a Smith. La giudice Barrett si interroga, infatti, su come evitare un approccio troppo categorico alla questione, anche tenendo conto che la giurisprudenza formulata in relazione agli altri diritti, di cui al I emendamento (libertà di manifestazione del pensiero e di associazione), ha saputo ammettere sfumature applicative di non poco rilievo.
Il timore, neanche tanto velato, è quello che a suo tempo aveva indotto il Justice A. Scalia a stendere l’opinione di maggioranza in Smith e cioè che ogni individuo possa, invocando motivi religiosi, sottrarsi all’applicazione di obblighi di legge generali, anche se questi perseguano rilevanti interessi pubblici in materia di tasse, istruzione scolastica, diritto di famiglia etc.
Infine il terzo gruppo di giudici, esponenti dell’area cd. liberal e più inclini, sul piano dell’interpretazione, a letture evolutive del testo costituzionale, sono rimasti silenti sull’opportunità di superare il precedente Smith, sebbene abbiano tutti convenuto che l’interesse a promuovere la parità di trattamento in ragione dell’orientamento sessuale e quello di evitare la stigmatizzazione sociale dei gruppi di minoranza non giustificassero, nel caso di specie, il rifiuto da parte dell’amministrazione di attivare la deroga per finalità religiose.
Tuttavia, come osservato da S. Alito, la questione sembra solo rimandata. Una formulazione del divieto di discriminazione per motivi di orientamento sessuale, che risultasse espressa in termini assoluti, senza riconoscere alcuna possibilità di deroga, rientrerebbe nella nozione di legge generale ai sensi di Smith e imporrebbe il blando rational test. All’amministrazione comunale basterebbe, dunque, riformulare nei termini indicati la convenzione in questione.
Ben cinque, se non sei, giudici hanno manifestato l’intenzione di superare il precedente Smith, ma non vi è consenso relativamente a quale sia l’approccio più corretto da seguire, temendosi, da parte di alcuni, che l’applicazione dello strict scrutiny possa irrigidire eccessivamente la soluzione delle controversie.
È da chiedersi, peraltro, se davvero la questione dell’overrulling del precedente Smith sia così dirimente. Anche qualora, infatti, si superasse Smith e si ristabilisse lo strict scrutiny test, rimarrebbe l’interrogativo, davvero cruciale, se l’obiettivo di garantire la parità di trattamento e quello di evitare la stigmatizzazione sociale delle minoranze tutelate, incluse quelle individuate in ragione dell’orientamento sessuale, siano di rilievo pubblico tale e non possano essere validamente perseguiti, se non escludendo in radice la possibilità di prevedere deroga alcuna, anche laddove motivata dall’opportunità di tutelare l’esercizio della libertà religiosa.
Nel caso Bob Jones University[16], la Corte Suprema ha stabilito che la tutela della libertà religiosa non possa giustificare prassi discriminatorie in ragione della razza nell’ammissione agli studi universitari. Lo sradicamento della discriminazione razziale dalla società americana è un interesse pubblico così preminente da giustificare il diniego assoluto di ogni forma derogatoria al divieto di discriminazione per la razza, anche se religiosamente motivata. Si può ritenere che tale precedente sia applicabile anche allorché la richiesta di un’esenzione religiosa sia avanzata per sottrarsi agli obblighi alla parità di trattamento in ragione dell’orientamento sessuale o solo alla tutela contro la discriminazione per la razza deve garantirsi, in ragione delle vicende storiche statunitensi, un valore assoluto?
L’argomento, rimasto sottotraccia nelle argomentazioni della sentenza, ha invece impegnato lungamente i giudici nella fase della trattazione orale (si veda l’efficacissima sintesi di Blackman J. 2020).
Riecheggia ancora il timore del giudice A.C. Barrett di non affrontare la questione in modo troppo categorico (sulla necessità di tenere in conto gli aspetti fattuali della vicenda, anche applicando lo strict scrutiny test, Laycock D., Berg T.C. 2021).
Sembrano, infatti, diversi gli aspetti da prendere in considerazione nel relativo giudizio di proporzionalità. Per esempio, nel caso Fulton, la circostanza per cui l’amministrazione avesse deciso di delegare ad enti privati, per giunta non profit, una decisione eminentemente pubblicistica, quale la certificazione di idoneità all’affido della coppia, sembra un elemento da valutare nella ponderazione dei due interessi, nella misura in cui, così agendo, l’amministrazione non poteva disconoscere, e implicitamente non poteva non accettare, il pluralismo ideologico presente nella società civile.
In questo senso, è poi da considerare che la CSS non negava la certificazione a persone omosessuali che, come singoli, intendessero prendere in affido minori, ma la negava a coppie omosessuali sposate, nonché alle coppie eterosessuali non sposate. Era dunque lo status di coppia sposata omosessuale a rilevare, anziché la condizione di omosessuale, e ciò perché ad essere in contrasto coi principi della dottrina cattolica è appunto il riconoscimento di tali unioni e non l’orientamento sessuale di per sé considerato (sul punto anche De Santis C. 2021). Ed è da ricordare, a tale riguardo, l’affermazione della Corte in Obergefell in cui essa ha sottolineato come il riconoscimento del diritto al matrimonio delle coppie omosessuali non avrebbe inciso sulla liceità dell’espressione di opinioni volte a ritenere il matrimonio una istituzione riservata all’uomo e alla donna[17].
Un discorso diverso si potrebbe fare, però, laddove l’attività di certificazione fosse stata resa esclusivamente dall’amministrazione. In una situazione simile, apparirebbe certamente più problematico configurare possibili esenzioni religiose su base individuale in capo ai dipendenti pubblici. L’atto del funzionario non potrebbe non essere riferito all’amministrazione nel suo complesso, non solo più ovviamente sul piano giuridico, ma anche sul piano simbolico, dato che il pubblico immedesima il singolo funzionario con l’amministrazione in generale. Vi sarebbe allora una contraddizione evidente rispetto all’obbligo di quest’ultima non solo di agire non discriminando, ma anche di applicare fedelmente la legge, sicché il rifiuto assoluto all’esenzione su base religiosa apparirebbe forse necessario e giustificato per perseguire i fini istituzionali dell’ente e per garantire l’imparzialità e il buon andamento dell’amministrazione.
E anche qualora sia ipotizzabile che l’organizzazione interna degli uffici possa agevolmente consentire di andare incontro alle esigenze di carattere religioso di quei dipendenti pubblici che si rifiutassero di adempiere, per motivi di coscienza, a talune mansioni, vi è pur sempre da interrogarsi, laddove almeno la cosa diventasse di dominio pubblico, se ciò non crei effetti di stigmatizzazione sociale in relazione agli appartenenti a taluni gruppi sociali che chiedono pur sempre di avere accesso a servizi o diritti riconosciuti dalla legge[18]. Inoltre, è da considerare che tale accesso potrebbe nei fatti risultare difficoltoso, laddove le richieste di esenzione su base religiosa fossero in numero tale da incidere negativamente sulla organizzazione interna necessaria per rendere fruibile il diritto. In questo senso, e sebbene le due situazioni non possano evidentemente assimilarsi, non si può non ricordare come nel contesto italiano il riconoscimento legislativo dell’obiezione di coscienza per le pratiche abortive abbia determinato seri problemi di effettività del diritto alla salute delle donne[19].
Come si è visto, la circostanza per cui la prassi seguita dalla CSS non avesse concretamente messo in discussione l’accesso alla certificazione delle coppie omosessuali è stato un elemento esplicitamente preso in considerazione dalla Corte Suprema nel ritenere sproporzionato il diniego all’esenzione da parte dell’amministrazione comunale.
In definitiva, dunque, per i motivi che si sono indicati, non sembra che la sentenza in esame possa rappresentare una soluzione definitiva al potenziale conflitto tra istanze religiose e tutela dei diritti delle minoranze omosessuali ed è, del resto, probabile che si sviluppino soluzioni a declinazione variabile, in funzione, almeno in parte, degli elementi fattuali via via oggetto di considerazione. È poi da considerare che l’argomentazione della Corte si è giocata esclusivamente attorno alla libertà religiosa, mentre la dimensione costituzionale del divieto di discriminazione per l’orientamento sessuale, attraverso le maglie del XIV emendamento, non ha giocato alcun ruolo. Una decisione interlocutoria, dunque, che per il momento si limita a rinviare il problema.
Davide Strazzari, prof. associato dell’Università di Trento
Bibliografia
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Romeo G. 2020, L’argomentazione costituzionale di common law, Torino, Giappichelli.
*Il presente contributo si inserisce nelle attività di ricerca condotte nell’ambito del progetto PRiN 2017, “Dal pluralismo giuridico allo stato interculturale. Statuti personali, deroghe di diritto comune e limiti inderogabili”.
[1] Condividiamo, infatti, l’osservazione secondo cui la distinzione tra giudici cd. conservatori e giudici cd. liberal sia impropria e come, piuttosto, la vera linea divisoria sia tra chi è maggiormente propenso a favorire approcci interpretativi evolutivi del testo costituzionale o, al contrario, più aderenti al testo e all’intenzione originaria dei costituenti, riflettendo con ciò l’eterna questione della minore o maggiore deferenza del giudice rispetto al legislatore e una diversa concezione della portata normativa della Costituzione. Cfr. Olivetti M. 2020. Su questo, più in generale, si veda anche Luciani M. 2020, p. 4, che osserva come l’attivismo giudiziario non ha un colore (politico) predefinito e «che si può essere benissimo attivisti progressisti e attivisti conservatori, senza che l’una e l’altra cosa determini una qualsivoglia contraddizione». Ciò premesso, in considerazione della brevità dello scritto e per comodità, riferiremo anche noi il termine “conservatori” per designare quei giudici che propendono, nell’interpretazione costituzionale, per un approccio testuale e/o di carattere storico. Per una recente panoramica sui diversi approcci ermeneutici praticati nell’esperienza costituzionale statunitense, si veda Romeo G. 2018 e 2020, spec. 137 ss.; nonché Pin A. 2021, 187 ss.
[2] L’opinione di maggioranza, redatta dal Chief Justice J. Roberts, è stata sottoscritta dai giudici S. Breyer, S. Sotomayor. E. Kagan, B. Kavanaugh, A.C. Barrett.
[3] La giudice A.C. Barrett ha steso un’opinione concorrente, sottoscritta dal giudice B. Kavanaugh e, con eccezione del primo paragrafo, dal giudice S. Breyer. Il giudice S. Alito ha steso una lunga ed approfondita concurring opinion sottoscritta dai giudici C. Thomas e N. Gorsuch. A sua volta quest’ultimo ha redatto una concurring opinion sottoscritta dai giudici S. Alito e C. Thomas.
[4] Employment Division v. Smith, 494 U.S. 872 (1990) in cui la Corte ritenne legittimo che l’amministrazione negasse un sussidio di disoccupazione a una persona licenziata a causa dell’uso di una sostanza psicotropa, quale il pejote, nonostante tale uso sia parte integrante del rito religioso della Native American Church.
[5] Sherbert v. Verner, 374 U.S. 398 (1963). Il caso riguardava una componente della Chiesa Avventista del Settimo Giorno, che era stata licenziata per aver rifiutato di lavorare il sabato a causa dei precetti della religione d’appartenenza. A quest’ultima veniva successivamente negato dall’amministrazione competente anche il sussidio di disoccupazione con la motivazione che il rifiuto di lavorare il sabato fosse ingiustificato, e ciò nonostante la previsione normativa di una clausola generale che avrebbe permesso all’amministrazione di valutare l’esistenza di “buone ragioni” che giustificassero la decisione del lavoratore disoccupato di non accettare l’offerta lavorativa. L’amministrazione, infatti, non ritenne che la necessità di adempiere ai precetti religiosi potesse qualificarsi come una “buona ragione” per rifiutare l’offerta lavorativa.
[6] Wisconsin v. Yoder, 406 U.S. 205 (1962).
[7] Washington v. Davis, 426 U.S. 229 (1976).
[8] La nozione di discriminazione indiretta – o disparate impact, nel lessico giuridico statunitense – è di elaborazione giurisprudenziale (Griggs v. Duke Power Co, 401 U.S. 424 1971), ma si applica solo al divieto di discriminazione sancito a livello legislativo e non è applicabile, come appunto chiarito in Washington v. Davis, in relazione ad azioni fondate sulla violazione costituzionale del principio di eguaglianza di cui al XIV Emendamento.
[9] Questa è l’ipotesi trattata in Sherbert. Infatti, come detto, l’amministrazione non aveva ritenuto che la motivazione religiosa addotta rientrasse tra le “good reasons” che potevano giustificare il rifiuto, da parte del percettore di un sussidio di disoccupazione, di un’offerta di lavoro idonea.
[10] Obergefell v. Hodges, 576 U.S. 644 (2015)
[11] Cfr. Burwell v. Hobby Lobby Stores Inc, 573 U.S. 682 (2014). La riforma sanitaria di Obama, che impone ai datori di lavoro di fornire una copertura assicurativa per spese mediche ai loro dipendenti, includeva anche le spese per contraccettivi, ma prevedeva due tipologie di accomodamenti in relazione alla libertà religiosa. Da un lato, le Chiese erano esplicitamente esentate dall’obbligo di fornire tale copertura, mentre gli enti non profit ideologicamente orientati potevano delegare ad altre imprese assicurative l’obbligo di fornire la prescritta copertura assicurativa. Le imprese commerciali for profit erano invece tenute ad assolvere all’obbligo legislativo. In Hobby Lobby, la Corte, sulla base del RFRA, ha ritenuto che la misura fosse eccessivamente lesiva della libertà religiosa sinceramente manifestata dalle imprese commerciali contrarie all’aborto e ha esteso il regime applicabile agli enti non profit anche alle imprese commerciali. Successivamente, l’amministrazione Trump ha esteso agli enti non profit e alle società commerciali la possibilità di un’esenzione completa per motivi religiosi rispetto all’obbligo di fornire la copertura assicurativa per spese di contraccettivi, senza dunque il ricorso allo schema della delega e lasciando così prive di copertura assicurativa le lavoratrici in relazioni a tale categoria di spesa. In Little Sisters of the Poor Saints Peter and Paul Home v. Pennsylvania and New Jersey (591 U.S._2020), la Corte Suprema ha ritenuto tale normativa secondaria legittima (Cfr. Chielegato E. 2020).
[12] A riguardo, si può ricordare il caso Masterpiece Cakeshop v. Colorado Civil Rights Commission (584 U.S. _ (2018). La controversia, che riguardava comunque la fornitura di beni e/o servizi commerciali al pubblico (nel caso di specie, la preparazione e vendita di una torta nuziale per celebrare il matrimonio di una coppia omosessuale, negata dal pasticciere a causa del suo credo religioso), è stato effettivamente decisa a favore del ricorrente. Tuttavia, la Corte ha risolto il caso ritenendo che fosse rinvenibile un intento discriminatorio da parte della Colorado Civil Rights Commission, che aveva ritenuto di perseguire il comportamento del pasticciere. La sentenza, dunque, non ha risolto la questione del diritto costituzionale a un’esenzione per motivazioni religiose nella fornitura di beni o servizi alle coppie omosessuali.
[13] I diversi interventi sono consultabili al sito https://www.supremecourt.gov/docket/docketfiles/html/public/19-123.html
[14] Cfr. Il testo della clausola contenuta nella convenzione (corsivo nostro): «Provider shall not reject a child or family including, but not limited to, . . . prospective foster or adoptive parents, for Services based upon . . . their . . . sexual orientation […] unless an exception is granted by the Commissioner or the Commissioner’s designee, in his/her sole discretion».
[15] Circa, invece, l’altro argomento su cui si fondava il recesso dell’amministrazione comunale dalla convenzione – il fatto che il comportamento della CSS era contrario all’ordinanza che imponeva nella fornitura di servizi l’obbligo di non discriminare in ragione dell’orientamento sessuale, senza alcuna possibilità di deroga – la Corte riterrà che l’ordinanza non sia applicabile ai fatti di causa. Per la Corte, infatti, l’attività certificatoria svolta dalla CSS non rientra nella nozione di fornitura di servizi, non essendo destinata alla generalità delle persone.
[16] Bob Jones University v. U.S., 461 U.S. 574 (1983)
[17]Obergefell v. Hodges, p. 27 « Finally, it must be emphasized that religions, and those who adhere to religious doctrines, may continue to advocate with utmost, sincere conviction that, by divine precepts, same-sex marriage should not be condoned. The First Amendment ensures that religious organizations and persons are given proper protection as they seek to teach the principles that are so fulfilling and so central to their lives and faiths, and to their own deep aspirations to continue the family structure they have long revered. The same is true of those who oppose same-sex marriage for other reasons. In turn, those who believe allowing same-sex marriage is proper or indeed essential, whether as a matter of religious conviction or secular belief, may engage those who disagree with their view in an open and searching debate. The Constitution, however, does not permit the State to bar same-sex couples from marriage on the same terms as accorded to couples of the opposite sex».
[18] In Eweida and Others v. UK, 15.1.2013, la Corte EDU ha affrontato il caso Ladele, relativo alla possibile violazione degli artt. 9 e 14 CEDU, in conseguenza del mancato riconoscimento di un’esenzione su base religiosa a favore di Ms. Ladele, dipendente del servizio anagrafe dell’amministrazione comunale che si opponeva alla trascrizione delle unioni civili di coppie omosessuali per ragioni religiose. La Court of Appeal britannica aveva ritenuto che il rifiuto all’’esenzione non determinasse una discriminazione indiretta per la religione. La Corte EDU, pur riconoscendo che la misura impattasse sul diritto alla libertà religiosa della ricorrente, ha tuttavia sottolineato che il comportamento dell’amministrazione fosse giustificato dalla necessità di garantire i diritti altrui. La Corte ha, dunque, concluso riconoscendo che nel relativo bilanciamento dei due diritti si doveva riconoscere un certo margine di apprezzamento alle autorità nazionali e di conseguenza ha valutato che, nel caso di specie, il Regno Unito non avesse violato la Convenzione.
[19] Il Comitato europeo dei diritti sociali ha condannato due volte l’Italia sottolineando come l’alto numero di obiettori di coscienza nel personale medico in relazione all’accesso all’aborto determini una violazione del diritto alla salute della donna, che intendesse accedere a tale pratica medica. Vedi Comitato europeo dei diritti sociali, International Planned Parenthood Federation European Network v. Italy, No 87/2012, del 10.3.2014; CGIL v. Italy, No. 91/2013, 11 aprile 2016.