Employment in boarding-schools and equal opportunities: does Jane Eyre still live here?
L’Autrice ricostruisce la particolare disciplina legale che ancora oggi consente, per l’assunzione negli educandati e convitti, di operare assunzioni in base al sesso e esamina criticamente la scelta della Corte Costituzionale di non intervenire sulla questione demandando al legislatore il riordino della materia.
The Author traces the special legal framework still allowing gender-based hiring in boarding schools and critically examines the Italian Constitutional Court’s decision not to address the issue, leaving it to the lawmaker to amend the matter.
La pronuncia trae origine da una controversia radicata dinanzi al Giudice del Lavoro di Trapani da una educatrice, collocata al primo posto della graduatoria ad esaurimento per il personale educativo della Provincia, la quale deduceva la natura discriminatoria in ragione del sesso del provvedimento con il quale l’Ufficio Scolastico Regionale stabiliva che l’unico posto disponibile venisse destinato ed assegnato ad un candidato di sesso maschile, escludendo le aspiranti di sesso femminile.
Ella chiedeva pertanto al Giudice a quo, in forza della normativa antidiscriminatoria vigente in materia di accesso al lavoro, l’accertamento della illegittimità del provvedimento, la cessazione del comportamento e la rimozione dei suoi effetti, mediante l’eliminazione della clausola contestata e la convocazione della ricorrente in ragione della sua posizione in graduatoria, oltre che il riconoscimento del danno non patrimoniale.
Il Giudice del Lavoro non riteneva di poter prescindere, ai fini del decidere, da una pronuncia di costituzionalità della norma in conformità della quale il provvedimento amministrativo era stato adottato, ovvero l’art. 4- ter comma 3 del D.L. 3/7/2001 n. 255, convertito con modificazioni nella legge 20/08/ 2001 n. 333, accertando pertanto la rilevanza in giudizio della questione.
Quanto alla manifesta infondatezza, appare utile ricordare come il Tribunale remittente abbia voluto sottolineare la palese disarmonia della disposizione rispetto ad un contesto normativo e giurisprudenziale orientato “in modo univoco a sancire l’illegittimità di qualsivoglia disparità di trattamento in ragione del genere, anche con riferimento all’accesso al lavoro” ( vedi ordinanza di rimessione n. 71 del 18 febbraio 2021, pubblicata in Gazzetta Ufficiale 1° Serie Speciale Corte Costituzionale n. 21 del 26 maggio 2021).
Ciò premesso, il Giudice di merito sollevava questione di legittimità costituzionale della disciplina applicabile al caso de quo, in riferimento agli art. 3 e 51 Cost. ed in specifico ove la norma censurata, disponendo che “la distinzione tra alunni convittori e alunne convittrici opera ai soli fini dell’individuazione dei posti in organico per le esigenze delle attività convittuali da affidare a personale educativo rispettivamente maschile e femminile” (art. 4 –ter del D.L. n. 255/2001 conv. in L. n. 333/2001), veniva ad introdurre una irragionevole deroga al principio di non discriminazione in ragione del genere, con particolare riguardo all’accesso al lavoro.
Infatti, secondo il giudice a quo, la ratio di tale disciplina, consistente, secondo una parte della giurisprudenza di merito (come Trib. Bari, sez. lav. sentenza del 31 luglio 2003) nell’esigenza di garantire una relazione educativa “paritaria e confidenziale” nelle istituzioni convittuali attraverso l’omogeneità di genere fra allievi/allieve ed educatori/educatrici, appariva anacronistica nella società contemporanea, indirizzata a riconoscere ai giovani di entrambi i sessi percorsi educativi ed evolutivi paritari e condivisi. Il giudice rimettente evidenziava pertanto la sproporzione ed irragionevolezza di una scelta siffatta, in deroga al principio di parità di trattamento nell’accesso al lavoro, a fronte di possibili diverse soluzioni organizzative adottabili per rispettare la privacy dei convittori e convittrici pernottanti.
Questo breve richiamo agli aspetti salienti della controversia, premesso per comodità del lettore, risulta altresì necessario ai fini della nostra riflessione, dal momento che la Consulta, nel dichiarare inammissibile la questione di legittimità costituzionale, ha riportato il tema sostanzialmente ai blocchi di partenza, lasciando intatta la norma oggetto delle censure ed, aggiungiamo noi, non affrontando neppure con definite indicazioni interpretative le reali e serie, nonché annose problematiche che sottendono alla questione.
La Corte peraltro non ha perso occasione, anche in questo caso, di richiamare il legislatore alle sue responsabilità, attraverso “una rimeditazione della disciplina delle istituzioni educative nella sua globalità” , mediante una verifica della loro perdurante rispondenza “agli orientamenti ed ai valori radicati nella coscienza sociale”.
Non è certo la prima volta che la Corte Costituzionale sollecita il legislatore, troppo spesso neghittoso, specie su tematiche sensibili, ad intervenire in maniera più tempestiva ed incisiva rispetto a norme obsolete, che appaiono superate dal comune sentire e che nella loro applicazione determinano di fatto ingiustizie e disuguaglianze. Più volte, anche recentemente, la Consulta ha sottolineato come la funzione di supplenza a tali imperdonabili carenze e ritardi, che le viene frequentemente richiesta, sia impropria ed irrispettosa della divisione dei compiti fra poteri dello Stato, e che, alla lunga, lo sconfinamento dell’azione della Corte, sempre più spesso chiamata a sostituirsi e compensare con le proprie sentenze alle inefficienze del legislatore, finisca per compromettere il delicato equilibrio fra pesi e contrappesi presente nel nostro ordinamento.
Non a caso è la stessa Corte Costituzionale a richiamare un proprio importante precedente, la sentenza n. 84 del 2016, con la quale ha dichiarato l’inammissibilità della questione di costituzionalità sollevata dal Tribunale di Firenze circa il divieto di utilizzare gli embrioni soprannumerari per finalità di ricerca.
In tale importante pronuncia la Corte ha rilevato che la questione «rimanda al conflitto, gravido di implicazioni etiche oltreché giuridiche, tra il diritto della scienza (e i vantaggi della ricerca ad esso collegati) e il diritto dell’embrione, per il profilo della tutela (debole o forte) ad esso dovuta in ragione e in misura del (più o meno ampio) grado di soggettività e di dignità antropologica che gli venga riconosciuto. Un conflitto, in ordine alla cui soluzione i giuristi, gli scienziati e la stessa società civile sono profondamente divisi. Ed anche le legislazioni, i comitati etici e le commissioni speciali dei molti Paesi che hanno affrontato il problema, approfondendone le implicazioni, sono ben lungi dell’essere pervenuti a risultati su cui converga un generale consenso(..).
Secondo la Corte, «a fronte, dunque, di quella che qualcuno ha definito “una scelta tragica”, tra il rispetto del principio della vita (che si racchiude nell’embrione ove pur affetto da patologia) e le esigenze della ricerca scientifica – una scelta, come si è detto, così ampiamente divisiva sul piano etico e scientifico, e che non trova soluzioni significativamente uniformi neppure nella legislazione europea – la linea di composizione tra gli opposti interessi, che si rinviene nelle disposizioni censurate, attiene all’area degli interventi, con cui il legislatore, quale interprete della volontà della collettività, è chiamato a tradurre, sul piano normativo, il bilanciamento tra valori fondamentali in conflitto, tenendo conto degli orientamenti e delle istanze che apprezzi come maggiormente radicati, nel momento dato, nella coscienza sociale».
Si trattava peraltro, nella fattispecie, di una decisione normativa caratterizzata da un grado tanto elevato di discrezionalità e delicatezza da sottrarsi giocoforza al sindacato della Corte Costituzionale e sulla quale, in ogni caso, i giudici costituzionali non sarebbero potuti intervenire con una sentenza additiva, come quella richiesta dal giudice a quo: infatti «Il differente bilanciamento dei valori in conflitto, che attraverso l’incidente di costituzionalità si vorrebbe sovrapporre a quello presidiato dalla normativa scrutinata, non potrebbe, infatti, non attraversare (e misurarsi con) una serie di molteplici opzioni intermedie, che resterebbero, anch’esse, inevitabilmente riservate al legislatore».
Ciò richiamato per dovere di completezza e tornando al nostro specifico caso, a fronte della pronuncia di inammissibilità come monito e richiamo verso un legislatore pigro e poco propenso a colmare le lacune conseguenti alla divaricazione fra norme risalenti e comune sentire (si ricorda che il tema è stato più volte oggetto di interrogazioni parlamentari), ci si chiede però, con il massimo rispetto che è dovuto al Giudice delle Leggi, se davvero la Corte non avrebbe potuto intervenire nel caso de quo in maniera più incisiva, su un tema indubbiamente meno divisivo e sensibile di quello a suo tempo affrontato con la pronuncia 84/2016. Anche se sicuramente non meno importante, dal momento che involge la questione della disparità di trattamento uomo-donna nel lavoro e del contrasto di una disposizione di legge con il basilare e fondativo principio d’eguaglianza di cui all’art. 3 Cost. Quanto meno, forse, ci si poteva aspettare che la Corte suggerisse al legislatore la strada per ricondurre la normativa ad un assetto conforme ai principi costituzionali.
La maggiore perplessità sorge rispetto al punto sul quale la Corte si è sostanzialmente fermata, considerando un dato acquisito che negli educandati femminili e nei convitti maschili debba insegnare personale educativo di genere omogeneo rispetto a convittori e convittrici, perché ciò è stabilito non da una norma singola, ma da una disposizione inserita in un “sistema” coerente, con il quale il legislatore ha voluto configurare “un sistema educativo attuato con l’istituzione di strutture convittuali, nel quale la distinzione tra educatori ed educatrici è speculare e funzionale alla separazione tra gli allievi convittori e le allieve convittrici”.
E l’ablazione della sola norma censurata che assicura tale differenziazione, secondo la Corte, avrebbe determinato una insuperabile disarmonia del “sistema” complessivamente considerato. Quindi, si ripete, il punto nodale sul quale la Corte si è arrestata in definitiva si incentra sull’esistenza (o meno) nel nostro ordinamento di una struttura normativa sistemica, che implichi ed accetti l’esistenza di convitti ed educandati distinti per genere e che con rigida consequenzialità imponga, come unica soluzione possibile, una organizzazione del personale anch’essa diversificata per genere, a seconda che tali strutture siano frequentate da maschi o femmine.
La Corte nella pronuncia ne individua puntualmente i capisaldi normativi: l’art. 203 del D.Lgs. n. 297 del 1994, che disciplina i convitti nazionali e l’art. 204 del d.lgs. n. 297 del 1994 per gli educandati femminili di Stato. Il “sistema” è completato dall’art. 20 del DPR n. 81 del 2009, norma con la quale si è inteso riorganizzare la rete scolastica e garantire il razionale ed efficace utilizzo delle risorse umane della scuola, in riferimento alla legge n. 133 del 2008. In base a tale disciplina, le dotazioni organiche delle strutture convittuali sono stabilite con riguardo alla somma dei convittori e delle convittrici, conferendo ai dirigenti il compito della ripartizione dei posti in maniera distinta fra personale maschile e femminile.
Da tale ricostruzione normativa la Corte ricava la fonte della distinzione fra educatori ed educatrici, “speculare e funzionale alla separazione fra gli allievi convittori e le allieve convittrici”. Ed essendo un sistema normativo articolato e complesso, per la Consulta la risoluzione del quesito “richiederebbe una rimeditazione della disciplina delle istituzioni educative nella sua globalità che spetta alla discrezionalità del legislatore” perché “ad esso solo compete di rimodulare il sistema normativo in esame, apprezzando quale interprete della volontà collettiva, una rivalutazione delle ragioni che sorreggono la distinta configurazione delle istituzioni convittuali per allieve e per allievi”.
Eppure la soluzione adottata dal Giudice delle Leggi e le ragioni che la sottendono non convince pienamente.
Due sono i punti che suscitano maggiore perplessità. Il primo è legato alla effettiva esistenza di un “sistema” normativo che regola i convitti e gli educandati e che abbia davvero quella omogeneità prefigurata dalla Corte, tale da impedire o rendere inefficace la ablazione di una singola norma attraverso un intervento mirato, per così dire chirurgico. Il dubbio sorge dalla disamina delle stesse norme indicate dalla Corte quali capisaldi del cosiddetto “sistema”, che appaiono destinatarie, in tempi non lontani, di interventi modificativi, riconducibili non solo ad una esigenza di razionalizzazione, ma altresì ispirati alla disciplina che si prefigura di garantire la parità di trattamento e il divieto di discriminazioni tra uomo e donna sia nel lavoro che nell’istruzione e formazione. Quindi anche istituzioni di tradizione ottocentesca come i convitti (maschili) e gli educandati (femminili) hanno già subito il benefico influsso dei principi di parità e pari opportunità penetrati nel nostro ordinamento grazie alle leggi n. 903/77, n.125/91 ed alle successive norme frutto del recepimento di varie direttive comunitarie, oggi raccolte nel d.lgs. n. 198/2006, Codice della Pari Opportunità.
Di ciò dà atto anche il Consiglio di Stato ( sentenza Sez. II 29/09/1999 n. 388), quando ricorda che il Ministero della P.I. a seguito dell’entrata in vigore della l. n. 125/91 ha imposto ai Convitti Nazionali di accogliere le iscrizioni sia di maschi che di femmine e che da tale momento “in base alla mutata composizione dei frequentatori delle predette istituzioni educative si è rotto il principio di esclusività che caratterizzava le stesse sul piano della totale corrispondenza di sessi tra convitti con convittori di solo sesso maschile ed educatori dello stesso sesso, ed analogamente per le istituzioni femminili”.
Con la consequenziale esigenza di integrare il personale femminile nei convitti originariamente solo maschili e di formare graduatorie anche per le educatrici, da inserire nei convitti maschili con convittrici femminili. La pronuncia del Giudice Amministrativo sopra ricordata accoglieva infatti il ricorso di un’educatrice, la quale lamentava l’omessa compilazione da parte dell’Amministrazione della graduatoria di personale educativo femminile, a fronte dell’ingresso delle allieve nei convitti maschili e della distinta rilevazione del numero di semiconvittori e semiconvittrici “con conseguente organico distinto degli istitutori e delle istitutrici”.
Quindi il rigido meccanismo duale di reclutamento vigente all’epoca, cui corrispondeva l’istituzione di distinti ruoli provinciali, da una parte delle istitutrici degli educandati femminili dello Stato dei convitti nazionali femminili e dei convitti femminili annessi agli istituti tecnici e professionali, dall’altra degli istitutori dei convitti nazionali e di quelli annessi agli istituti tecnici ed agrari ( art. 121 del D.P.R. n. 417/74, modificato dalla legge n. 312/80), aveva già subito una sostanziale modificazione, proprio in seguito all’ingresso delle ragazze nei convitti maschili, con il conseguente venire meno, di fatto, del principio di esclusività della corrispondenza di genere tra convittori e convittrici ed educatori e educatrici nella medesima struttura.
Il sistema dei ruoli organici distinti per istitutori ed istitutrici previsto dall’art. 446 del D.lgs. n. 297 del 1994 (Testo Unico delle disposizioni legislative vigenti in materia di istruzione, relativa alle scuole di ogni ordine e grado) ha continuato a regolare l’accesso al lavoro in questo particolare settore del mondo scolastico fino all’entrata in vigore dell’art. 20 d.p.r. n. 81/2009, che ha sostituto la norma, abrogandola, con una diversa determinazione della dotazione organica, effettuata sempre in relazione al numero rispettivamente di allievi ed allieve, convittori/trici o semiconvittori/trici.
A questo punto, in buona sostanza, il “sistema” rigido fra istituzioni diversificate che ospitano distintamente maschi e femmine era già venuto meno e divenuto permeabile, grazie alla apertura delle strutture convittuali ad allievi di genere diverso. Nel contempo è intervenuta l’unificazione dei distinti ruoli provinciali del personale educativo, con l’art. 4-ter del D.L. n. 255/2001 conv. nella legge n. 333/2001, il quale dispone che per l’assunzione del personale educativo, individuato in relazione alle esigenze delle attività convittuali e semiconvittuali, si utilizzino le graduatorie provinciali unificate.
Quindi se già il sistema organizzativo di queste antiche istituzioni era cambiato, aprendosi all’ingresso delle allieve nei convitti maschili nazionali (ed, aggiungiamo noi, degli allievi semiconvittori negli educandati femminili di Stato) ed aveva perso quel rigido dualismo convitti/ educandati, cui corrispondeva il doppio ruolo organico provinciale e le conseguenti separate graduatorie di istitutori ed istitutrici, a cascata si era venuto a modificare anche il sistema di reclutamento del personale educativo.
Tanto è vero che il legislatore con il comma 3 della norma di cui sopra, (assoggettato allo scrutinio di legittimità), sente l’esigenza di ribadire che non vi è alcuna distinzione di trattamento fra alunne o alunni convittrici e convittori, se non al solo fine di individuare i posti in organico da affidare al personale educativo rispettivamente maschile e femminile.
Ed i posti in organico vengono contabilizzati (dall’art. 20 del D.P.R. n. 81/2009) ponendo mente ad una ulteriore differenza, pur importante, cui la Corte non pare dare rilievo nella ricostruzione normativa, ovvero la presenza numerica di allievi ed allieve convittori e/o convittrici ovvero semiconvittori e/o semiconvittrici, differenza che si incentra sostanzialmente nella permanenza residenziale o semiresidenziale dei ragazzi e delle ragazze della struttura. Ovvero,bisogna tenere conto se la permanenza degli allievi implica il pernottamento, con conseguente assoggettamento alle funzioni di sorveglianza notturna del personale educativo o se essi utilizzano solo gli altri servizi semiconvittuali, quali la mensa e ed il sostegno alle attività didattiche ed educative.
E qui si innesta il secondo profilo di perplessità, legato alla stessa profilazione della figura professionale dell’istitutore/ istitutrice ed più in generale del personale educativo occupato in convitti ed educandati. La stessa Corte, per meglio definire le funzioni di tali lavoratori e lavoratrici, ricorre alla fonte contrattuale, richiamando la declaratoria del CCNL del Comparto Scuola, in forza del quale per perseguire la “promozione dei processi di crescita umana, civile e culturale, nonché di socializzazione degli allievi”, le competenze di tali figure vanno ricondotte a skills legati all’area psicopedagogica, metodologica ed organizzativo-relazionale. Ciò riconduce le mansioni prevalenti di questi lavoratori e lavoratrici alla assistenza (diurna) nelle attività di studio e relazionali che contraddistinguono i momenti di vita comune dei convitti. Ma il contratto inserisce nell’ambito dell’attività educativa, la funzione di assistenza notturna nelle strutture residenziali e semiresidenziali.
Il tema è evidentemente considerato scabroso, visto che nelle difese delle parti ha avuto una certo spazio, anche se con toni sfumati e non adeguatamente esplicitati, diremmo quasi ellittici. Tanto è vero che l’Avvocato della Stato, nell’espletare le sue difese, aveva ritenuto che la funzione di vigilanza notturna fosse argomento determinante per attribuire alla differenziazione di genere degli educatori una “finalità legittima” perseguita attraverso “mezzi appropriati”, “a prescindere – (o forse, suggeriamo noi, in ragione di tale fattore, n.d.r.)- dalla rapida evoluzione dei costumi e della precocità delle nuove generazioni”. Da cui traspare un neanche troppo velato moralismo, chiaramente espresso da una parte della giurisprudenza di merito (come il Tribunale ordinario di Bari sezione lavoro ordinanza 31 luglio 2003, che il giudice a quo nella sua ordinanza di rimessione richiama), secondo la quale l’omogeneità di genere fra educandi ed educatori inserisce un rapporto più “paritario e confidenziale”, un’ingerenza meno invasiva e scongiura forme di “soggezione” tra l’adulto di sesso differente esercente un’autorità educativa ed il minore pernottante. Mentre la difesa della lavoratrice e lo stesso Giudice remittente sottolineavano l’anacronismo di tale impostazione, vista la forte impronta “unisex” e globale dei giovani nella società contemporanea. Quindi sembra che la ratio di una suddivisione organizzativa delle strutture convittuali non si radichi tanto nell’area delle esigenze didattiche e educative, rispetto alle quali ragazzi e ragazze non possono e non debbono subire trattamenti differenziati per genere, mentre sia rinvenibile, piuttosto, nella preoccupazione che la privacy dei convittori e convittrici possa subire indebite invasioni ed intrusioni da parte dell’educatore di sesso diverso.
Nel primo caso infatti, come correttamente argomenta il remittente Tribunale di Trapani, si dovrebbe ritenere che l’intera materia dell’insegnamento dovrebbe essere caratterizzata da una distinzione di genere, approccio del tutto inammissibile e superato, visto il carattere misto della composizione delle classi nella scuola italiana con assegnazione di insegnanti di entrambi i generi.
Quindi ci permettiamo di adombrare nel legislatore la preoccupazione di scongiurare rischi di abusi in ambienti residenziali misti, ancora così viva da voler conservare una anacronistica ripartizione di genere nel personale educativo che risale ad un regio decreto del 1931 e richiama, più che un’esigenza contemporanea, suggestioni da letteratura ottocentesca, a partire da Jane Eyre in poi.
Una preoccupazione peraltro puramente astratta, dal momento che la norma non vieta espressamente la presenza di istitutrici nelle strutture a frequenza maschile o viceversa, tanto è vero che, nella pratica, quando il convitto femminile è sezione di un convitto maschile, l’organico è misto, in genere con prevalenza maschile visto il maggior numero di allievi rispetto alle allieve, con consequenziale sorveglianza notturna secondo turni non necessariamente omogenei per genere.
Qui si innesta una ulteriore riflessione, che inerisce agli aspetti organizzativi della distribuzione del personale, risolti, nella norma censurata, attraverso l’individuazione di posti in organico destinati a personale maschile e femminile in numero coerente e speculare rispetto ai novero di convittori e convittrici. È l’art. 4-ter peraltro a voler sottolineare come “la distinzione fra alunni convittori e alunne convittrici opera ai soli fini dell’individuazione dei posti in organico (…)” . quindi non appare dubbio che sarebbe gravemente lesivo della parità educativa fra ragazzi e ragazze se ad esempio si proponessero contenuti o modalità diversificati per genere nel processo educativo proposto. Quindi il tema si sposta esclusivamente all’area del reclutamento del personale e della determinazione numerica, ripartita per genere. Sul punto la Corte sviluppa il suo rispettabile ragionamento senza tenere conto dei dati sopra richiamati, come la sussistenza sul territorio nazionale di strutture residenziali studentesche unitarie ma a frequenza mista, nelle quali già da ora il personale viene utilizzato in maniera indifferenziata e promiscua (per intenderci, con educatrici ed educatori destinati alla sorveglianza di camerate non omogenee per genere tra sorveglianti e sorvegliati).
Pertanto la rigidezza del “sistema” non si riscontra nella pratica applicativa, bensì nell’aver voluto mantenere l’obbligo per i dirigenti di procedere ad una selezione del personale determinato numericamente in base al genere di appartenenza ed in proporzione all’entità degli allievi per la copertura dei posti disponibili.
Ed a questo punto giova, per completezza di ragionamento, richiamare il disposto degli artt. 27 e 31 del Codice delle Pari Opportunità. Il primo, al comma 1, vieta qualsiasi discriminazione in ragione del sesso nell’accesso al lavoro, in forma subordinata, autonoma o in qualsiasi altra forma, compresi i criteri di selezione e le condizioni di assunzione ed al comma 5 precisa che nei concorsi pubblici e nelle forme di selezione anche a mezzo terzi la prestazione richiesta deve essere sempre accompagnata dalle parole “dell’uno o dell’altro sesso”, salvo i casi in cui il riferimento al sesso costituisca requisito essenziale per la natura del lavoro o della prestazione. Il secondo ribadisce che la donna può accedere a tutte le cariche professionali ed impieghi pubblici, nei vari ruoli, carriere e categorie, senza limitazione di mansioni e di svolgimento della carriera, salvi i requisiti stabiliti dalla legge. Si ricorda infine ai sensi dell’artt. 25 del D.Lgs. n. 198/2006 come le eccezioni al divieto di discriminazione diretta siano tassative ed ascrivibili essenzialmente all’area delle attività della moda, dell’arte e dello spettacolo, a condizione che l’appartenenza ad un determinato sesso sia da ritenersi essenziale, ed alle mansioni di lavoro “particolarmente pesanti” individuate mediante la contrattazione collettiva.
E che tale rigore può ritenersi attenuato nel caso della discriminazione indiretta, (ma tale non sembra il nostro caso), attraverso il regime delle cause di giustificazione, attivabili ove il criterio “neutro” discriminatorio persegua un obiettivo legittimo ed i mezzi impiegati per il suo conseguimento siano appropriati e necessari.
A stretto rigore, leggendo il caso in chiave discriminatoria alla luce della normativa sopra richiamata, di discriminazione diretta e non indiretta si dovrebbe parlare, dal momento che nella fattispecie l’esclusione dalla chiamata lavorativa dell’educatrice prima in graduatoria, a vantaggio di un collega maschio (e solo perché portatore di tale caratteristica, avendo esso un punteggio inferiore), si è determinata in danno della lavoratrice solo perché donna, quindi direttamente in ragione del fattore “sesso”. Rendendo improprio l’utilizzo delle argomentazioni legate alla legittimità dell’obiettivo ed alla appropriatezza e necessità dei mezzi per perseguirlo, come nella fattispecie è avvenuto da parte dell’Avvocatura dello Stato.
Si rileva inoltre come lo stesso giudice remittente, che pure ha richiamato nella sua ordinanza la normativa sovranazionale in materia di parità di trattamento (in specifico facendo riferimento all’art. 119 del Trattato istitutivo della CEE, agli artt. 2,3,13 e 137 del Trattato di Amsterdam, all’art. 21 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione nonché alla Convenzione Onu n. 79/81), non abbia ritenuto però, singolarmente, di spingersi oltre, ad esempio invocando l’applicazione diretta del diritto dell’Unione, in specifico il disposto di cui all’art. 14 comma 2 della Direttiva 54/2006. Infatti in questa prospettiva l’appartenenza di genere di istitutori ed istitutrici, in relazione alle mansioni sia educative che di vigilanza, molto difficilmente potrebbe essere considerata un requisito essenziale della prestazione, secondo le intenzioni del legislatore comunitario. Ma anche questo interessante scenario non è stato esplorato dal giudice a quo.
Per concludere. Indubbiamente non si può che aderire alle censure che la Consulta avanza rispetto ad un omesso intervento legislativo che adegui finalmente la normativa riguardante importanti istituzioni educative del nostro Paese, rendendola più razionale circa le sue ricadute organizzative e soprattutto coerente non solo con la coscienza sociale ma soprattutto con il principio d’eguaglianza di genere.
Teniamo conto infatti che, sotto il profilo storico, istituzioni come convitti ed educandati, fondati nei secoli scorsi da sovrani, nobili o comunque figure eminenti del Regno d’Italia, al fine di curare l’istruzione e la crescita morale, culturale e civile dei figli e delle figlie della classe dirigente dell’epoca, hanno avuto altresì il compito di agevolare l’accesso all’istruzione di giovani non abbienti e meritevoli.
Una funzione sociale che si è venuta ad accrescere e potenziare in tempi più recenti ed è tutt’ora viva, soprattutto per quanto riguarda i convitti annessi agli istituti tecnici ed agrari, spesso dislocati in territori geograficamente e socialmente disagiati, al fine di consentire ai giovani ed alle giovani la frequenza di scuole a forte connotazione professionale.
Nello stesso tempo, non possiamo non tenere conto che il legislatore ha già da tempo avviato un positivo percorso, nell’ottica di adeguare tutte le scuole di ogni ordine e grado ai principi di parità di genere nell’ambito educativo, sia per quanto riguarda i giovani fruitori del servizio, garantendo l’accesso a maschi e femmine a tutte le strutture, anche residenziali o semiresidenziali, sia relativamente al personale insegnante ed agli istitutori, facendo confluire educatori ed educatrici in un unico ruolo e garantendo loro lo stesso trattamento economico e normativo degli insegnanti della scuola primaria.
Questi elementi conducono pertanto a dubitare della sussistenza di un vero e proprio “sistema” omogeneo e strutturato, tanto da ritenere che un intervento demolitivo parziale, attraverso la dichiarazione di incostituzionalità del’art. 4-ter del D.L. n. 255/2001 avrebbe determinato quella disarmonia insuperabile che la Corte paventava.
A ciò, per mera ipotesi, forse avrebbe potuto seguire una declaratoria di incostituzionalità consequenziale, ai sensi dell’art 27 della legge 87/53, che si determina quando la Corte costituzionale, nell’accogliere una istanza o un ricorso relativo a questione di legittimità costituzionale di una legge o di un atto avente forza di legge, dichiara, nei limiti dell’impugnazione, non solo quali sono le disposizioni legislative illegittime, ma altresì, quali sono le altre disposizioni legislative, la cui illegittimità deriva come conseguenza dalla decisione adottata.
Più in specifico, l’ablazione dell’art. 4-ter avrebbe potuto portare una consequenziale, parziale caducazione dell’art. 20 d.p.r. n. 81/2009, nelle sole parti in cui, regolando la consistenza delle dotazioni organiche del personale educativo di convitti ed educandati sulla base del numero dei convittori/trici e semiconvittoti/trici, viene a suddividere tale consistenza in personale maschile e femminile.
Infatti l’operazione organizzativa di distribuzione dei posti sarebbe comunque salvaguardata, conservando il reclutamento attraverso la sola graduatoria a punteggio ed eliminando la selezione per genere.
Ciò consentirebbe di lasciare intatto il “sistema” attuale delle strutture residenziali e semiresidenziali, con la ripartizione tra convitti maschili ed educandati femminili, tenendo però conto dell’osmosi già avvenuta di fatto tra convittori e convittrici, attraverso l’ingresso misto ed indifferenziato di allievi ed allieve in entrambe le tipologie di struttura, indipendentemente dal genere, conformando finalmente tale “sistema” anche sotto il profilo del reclutamento del personale ai principi antidiscriminatori che presidiano l’accesso al lavoro, grazie ad una operazione “chirurgica” sulle due norme sopra ricordate.
Sarebbe un intervento ablativo indubbiamente di grana fine, ma non impossibile, e soprattutto che non determinerebbe una irrimediabile disarmonia. L’eventuale vuoto normativo sarebbe infatti superabile con un semplice intervento di natura regolamentare, da attuarsi mediante norme secondarie, con il quale determinare il numero degli istitutori/trici nel suo complesso, sulla base del numero globale degli/delle allievi/e. In questa prospettiva forse una riproposizione della questione alla Consulta non si potrebbe escludere, ove il quesito venisse articolato non più in funzione dell’illegittimità della sola norma attualmente censurata, ma del combinato disposto di questa con l’art. 20 del D.P.R. 20 marzo 2009 n. 81.
Confidiamo pertanto in una positiva evoluzione della materia, che permetta di rimuovere un’oggettiva, attuale ed inaccettabile criticità che va a discapito di lavoratori qualificati e soprattutto di lavoratrici, dal momento che, di fatto, le convittrici sono generalmente in numero minore dei convittori, anche per la tipologia degli istituti scolastici ai quali sono collegati, in prevalenza di natura tecnica, meno frequentati dalle ragazze a cagione del noto fenomeno della segregazione formativa. Con una conseguente penalizzazione proprio di quella fascia di popolazione lavorativa che nel nostro Paese è più debole e meno rappresentata sotto il profilo occupazionale, ovvero le donne.
Marina Capponi, avvocata del foro di Firenze