Nationality is now included among the prohibited grounds of discrimination in legislative decree 216/2003 and such a change enlarges the scope of the decree beyond employment.
L’autore esamina le novità introdotte dalla legge europea 2019/2020 che ha aggiunto il fattore “nazionalità” ai fattori di discriminazione vietati contenuti nel d.lgs. 216/03 – attuativo della direttiva 2000/78 – ed ha esteso il campo di applicazione di quest’ultimo al di là dell’ambito lavorativo che costituiva l’originario settore di applicazione di tale direttiva.
The Author examines the amendments in national antidiscrimination provisions introduced by the so called 2019/2020 European law, which added “nationality” to the prohibited discrimination factors provided originally in Legislative Decree 216/03, implementing Directive 2000/78, and extended the scope of the latter beyond the employment sphere that constituted the original scope of application of such directive.
1. Con la legge europea 2019/2020 (legge 23.12.2021 n. 238, in GU n. 12 del 17.1.2022) l’Italia è intervenuta sulla procedura di infrazione ARES (2019) 1602365 con la quale la Commissione Europea aveva contestato all’Italia di non aver dato attuazione alla direttiva 2014/54/UE “relativa alle misure intese ad agevolare l’esercizio dei diritti conferiti ai lavoratori nel quadro della libera circolazione dei lavoratori”.
La direttiva, composta di soli 9 articoli, ha in sostanza una funzione di mero rafforzamento di diritti già conferiti dal Regolamento 492/2011 relativo alla libera circolazione dei lavoratori all’interno dell’Unione e avrebbe dovuto essere recepita entro il 21.5.2016; ma nulla in proposito aveva fatto l’Italia, che dunque non disponeva sino ad ora di un sistema normativo generale volto a reprimere quelle discriminazioni per nazionalità tra cittadini dell’Unione che costituiscono ostacolo alla libera circolazione.
In realtà, a ben vedere, uno strumento in tal senso poteva essere reperito nell’art. 43 TU immigrazione che indica espressamente tra i fattori vietati quello della “origine nazionale” (comma 1) e della “condizione di straniero” (comma 2) e che, all’ultimo comma, precisa che “il presente articolo e l’articolo 44 si applicano anche agli atti xenofobi, razzisti o discriminatori compiuti nei confronti dei cittadini italiani, di apolidi e di cittadini di altri Stati membri dell’Unione europea presenti in Italia”.
Tuttavia, anche a prescindere dalla tecnica normativa imprecisa, gli artt. 43 e 44 cit. costituivano e costituiscono tuttora uno strumento di azione non al passo coi tempi, essendo nati ben prima delle direttive “di nuova generazione”, allorchè l’elaborazione del diritto antidiscriminatorio era assai più sommaria: basti pensare che i due articoli non contengono una chiara definizione delle nozioni di discriminazione diretta e indiretta, del campo di applicazione, dei rimedi e così via.
E’ quindi accaduto che le discriminazioni più frequenti (cioè quelle nei confronti dello straniero) dovessero attingere a diritti di parità di trattamento conferiti dalle direttive riguardanti i singoli titoli di soggiorno per i cittadini extra UE o riguardanti il diritto alla libera circolazione per i cittadini UE, riconducendoli poi all’art.43 (e all’art. 28 d.lgs. 150/11 sul piano processuale) per attingere alla qualificazione della vicenda come “discriminazione” e al relativo strumento processuale.
Bene ha fatto quindi la Commissione a obbligare l’Italia a dotarsi di un specifico strumento volto a contrastare le discriminazioni per nazionalità, se pure nei limiti dettati dalla direttiva 2014/54 e dunque limitatamente ai cittadini dell’Unione. All’esito di questa operazione il divieto di discriminazione per nazionalità (vero tallone d’Achille del diritto antidiscriminatorio, essendo in perenne conflitto con il potere degli Stati di disciplinare la condizione del migrante) potrebbe assumere un assetto tutto sommato più ordinato, che potrebbe riassumersi, in termini quasi scolastici, come segue: a) vi è un divieto sovranazionale sancito dall’art. 14 CEDU riferito alla “origine nazionale” (ma interpretato dalla giurisprudenza, anche costituzionale, come riferito alla cittadinanza[1]) che trova tuttavia applicazione solo ai diritti garantiti dalla Carta e dunque ai diritti fondamentali; b) vi sono specifici diritti alla parità di trattamento per gli stranieri titolari di determinati titoli di soggiorno: diritti talvolta fissati da norme dell’Unione, talvolta da norme nazionali, ma sempre riferiti a specifici ambiti della vita sociale e la cui violazione può in ogni caso qualificarsi come discriminazione “per nazionalità” e dar luogo all’applicazione dei relativi rimedi; c) vi è, infine, un generale divieto di discriminazione per nazionalità applicabile pressochè in ogni ambito della vita sociale, ma limitato ai cittadini dell’Unione e fondato sull’art. 45 TFUE.
2. Sennonchè quella che poteva essere una occasione di riordino, sembra aver dato esiti che non brillano per chiarezza, anche se forse suscettibili di sviluppi originali. Il legislatore ha infatti scelto di introdurre i correttivi richiesti dalla procedura di infrazione nel d.lgs. 216/03 cioè nel decreto di recepimento della direttiva 2000/78, aggiungendo ai fattori ivi indicati (età, orientamento sessuale, religione, convinzioni personali, disabilità) il fattore “nazionalità”.
Ora, poiché, come noto, all’art. 3, comma 2, della direttiva 2000/78 campeggia solennemente l’affermazione “La presente direttiva non riguarda le differenze di trattamento basate sulla nazionalità” è subito evidente che l’operazione di convogliare in un unico atto legislativo nazionale due direttive, l’una contenente detta esclusione e l’altra volta a reprimere proprio le discriminazioni per nazionalità, si prospettava fin dall’inizio piuttosto ardita.
Non solo: l’introduzione tout court di un divieto di discriminazione per nazionalità (senza ulteriori specificazioni) in occasione del recepimento di una direttiva sulla libera circolazione dei soli cittadini dell’Unione comporta un evidente discrasia. Così, se l’interprete dovesse guardare alla finalità dichiarata dal legislatore[2], alla collocazione della modifica in sede di legge europea e di chiusura della citata procedura di infrazione e, infine, alla nuova rubrica assegnata allo stesso d.lgs. 216/2003[3], dovrebbe necessariamente concludere che il fattore è richiamato solo con riferimento alla nazionalità dei cittadini UE.
Se però si guarda al tenore letterale della disposizione e, soprattutto, al fatto che il nuovo fattore viene aggiunto, senza specificazioni, a un elenco che non riguarda i soli cittadini UE (ovviamente il divieto di discriminazione, ad es. per età o religione o orientamento sessuale non riguarda i soli cittadini UE) dovrebbe invece concludere che il soggetto che il legislatore italiano ha voluto tutelare è lo straniero in quanto tale, cioè il soggetto connotato da una determinata cittadinanza, sia essa di paese UE o non UE.
E’ poi altrettanto pacifico che la direttiva 2000/78 ha come ambito di applicazione esclusivamente quello lavorativo (pur latamente inteso) mentre il divieto di discriminazione tra cittadini dell’Unione opera in un ambito molto più vasto e comprende tutte quelle situazioni che possono costituire, anche indirettamente, un ostacolo alla libera circolazione. Conseguentemente la convergenza delle due direttive in un’unica norma di recepimento ha comportato l’esigenza di uniformare i campi di applicazione: e siccome il meno sta nel più, il campo di applicazione è divenuto quello della direttiva avente il campo più ampio (cioè la direttiva 2014/54) superando le originarie limitazioni contenute nella direttiva 2000/78 e quindi nel testo originario del d.lgs. 216/03.
3.Venendo più in dettaglio alle modifiche, la gran parte di esse consiste soltanto nell’aggiunta della parola “nazionalità” a tutti gli elenchi di fattori contenuti in vari passaggi del d.lgs. 216.
Tra i vari elenchi così modificati spicca quello dell’art. 15 L. 300/1970 il cui secondo comma era già arricchito dalla prima versione del d.lgs. 216/03 e che ora così recita: “Le disposizioni di cui al comma precedente si applicano altresì ai patti o atti diretti a fini di discriminazione …di nazionalità…”: dunque – se pur con il dubbio di cui si è detto al punto che precede – il licenziamento o demansionamento o la mancata assunzione o l’atto comunque pregiudizievole “per lo straniero” trova ora una sua chiara collocazione nello Statuto dei lavoratori che fino ad ora – un po’ assurdamente – mancava: certamente lo straniero discriminato poteva far leva sulla lettera e) del comma 3 dell’art. 43 TU immigrazione[4], ma mancava un collegamento chiaro con il regime di stabilità reale in caso di licenziamento illegittimo, stante il riferimento dell’art. 2 d.lgs, 23/2015 al solo art. 15 L. 300/70 e “agli altri casi di nullità espressamente stabiliti dalla legge”, tra i quali una lettura restrittiva poteva non far rientrare, appunto, l’art. 43 TU immigrazione.
Ora la lacuna è colmata.
La seconda modifica di rilievo riguarda gli ambiti di applicazione dei divieti. All’elenco contenuto nell’art. 3 del d.dlgs. (che coincideva con quello contenuto nella direttiva 2000/78) vengono ora aggiunti gli ambiti contenuti nella direttiva 2014/54 che, come detto, sono più ampi dei primi, avendo la direttiva la finalità di intervenire su qualsiasi ostacolo, anche indiretto, alla mobilità dei cittadini dell’Unione.
Così, tra i nuovi ambiti di applicazione, alcuni sono strettamente connessi alla condizione di lavoratore e avrebbero quindi potuto trovare spazio anche nella direttiva 2000/78 (“salute e sicurezza, reintegro professionale, ricollocamento” ; “iscrizione alle organizzazioni sindacali ed eleggibilità negli organi di rappresentanza dei lavoratori” ; “assistenza fornita dagli uffici di collocamento”). Altri due ambiti però esulano del tutto dall’ambito lavorativo (“accesso all’alloggio” e “accesso a vantaggi sociali e fiscali”) e sono inseriti nella direttiva 2014/54 perché l’esclusione del migrante dall’uno o dall’altro ambito (ad es. requisiti restrittivi di residenza nell’accesso all’alloggio) costituisce un ostacolo alla libertà di circolazione.
Ora però – per come è costruita la norma nazionale – di tale estensione può sicuramente avvalersi anche il cittadino extra UE che certo non gode della libertà di circolazione, ma che potrà far valere come “discriminazioni vietate” anche quegli ostacoli nell’accesso all’uno o all’altro ambito che determinano, direttamente o indirettamente, una restrizione non consentita dalla legge. E se per l’alloggio la estensione non aggiunge molto a quanto già previsto dall’art. 43, comma 2, lettera c)[5], molto aggiunge invece l’estensione ai “vantaggi sociali e fiscali”.
Sul punto basti considerare che la Corte UE pronunciandosi con riferimento all’art. 7, comma 2 Regolamento 492/11 (ma già in precedenza con riferimento al Regolamento 1612/68) ha dato di questa nozione una interpretazione ampia, affermando che costituiscono “vantaggi sociali” i “vantaggi che, connessi o meno con un contratto di lavoro, sono generalmente attribuiti ai lavoratori nazionali, in ragione principalmente del loro status obiettivo di lavoratori o del semplice fatto della loro residenza nel territorio nazionale e la cui estensione ai cittadini di altri Stati membri risulta quindi atta a facilitare la loro mobilità all’interno dell’Unione e pertanto, la loro integrazione nello Stato membro ospitante” (sentenza 18.12.2019 in causa C-447/18, UB, punto 47). Dal punto di vista oggettivo ha così incluso nella nozione varie prestazioni assistenziali come il reddito garantito alle persone anziane in Belgio[6]; l’indennità denominata “minimo di mezzi di esistenza”, pure prevista dalla legislazione belga[7]; l’assegno speciale di vecchiaia in Francia[8]; l’assegno per adulti con disabilità in Belgio[9].
Dunque l’estensione è tutt’altro che marginale, specie se si considera che la direttiva 2000/78 (e dunque il d.lgs. 216 nel testo precedente) non trovava applicazione a materie di questo tipo essendo anzi espressamente esclusa l’applicazione della stessa “ai pagamenti di qualsiasi genere, effettuati dai regimi statali o da regimi assimilabili, ivi inclusi i regimi statali di sicurezza sociale o di protezione sociale”.
Non solo. Occorre anche considerare che l’estensione degli ambiti di applicazione, benchè sia effetto dell’inserimento del nuovo fattore, non è affatto limitata al nuovo fattore, ma riguarda l’intero d.lgs.: ne nasce così (ad es.) una “discriminazione per orientamento sessuale” (o per convinzioni personali o per età ecc. ) nell’accesso all’alloggio e nell’accesso ai vantaggi sociali, che finora era del tutto ignorata dall’ordinamento: dunque una piccola rivoluzione, forse non voluta, ma indubbiamente risultante dalle norme.
Infine il legislatore è intervenuto anche per replicare a un’altra contestazione contenuta nella procedura di infrazione, cioè la mancanza di un organismo “per la promozione, l’analisi, il controllo e il sostegno della parità di trattamento dei lavoratori dell’Unione e dei loro familiari”, ai sensi dell’art. 4 della direttiva.
I relativi compiti sono stati assegnati all’UNAR (peraltro disciplinato nell’ambito del d.lgs. 215/03 cioè delle norme riguardanti il divieto di discriminazione per razza e origine etnica) questa volta con esplicito e limitato riferimento all’ambito di applicazione della direttiva 54 e dunque alla assistenza “indipendente, giuridica o di altra natura, ai lavoratori dell’Unione europea e ai loro familiari”: un compito non da poco se pensiamo a situazioni come quella del requisito decennale per l’accesso al reddito di cittadinanza che certamente costituisce violazione della parità di trattamento nell’accesso ai vantaggi sociali e che ben potrebbe ora vedere un intervento, per quanto solo in sede di consultiva, dell’UNAR.
Alberto Guariso, avvocato del foro Milano.
[1] Si vedano le pronunce in tema di accesso dei cittadini extra UE alle prestazioni di invalidità: ad es. Corte Cost. 187/2010 che hanno dichiarato l’incostituzionalità della esclusione dello straniero per violazione dell’art. 117 in relazione all’art. 14 CEDU. I Tuttavia, in senso contrario, per la non immediata identificabilità del fattore “origine nazionale” con il fattore “cittadinanza” cfr. M. Militello e D. Stazzari, “I fattori di discriminazione”, in M.Barbera, A.Guariso, La tutela antidiscriminatoria: fonti, strumenti, interpreti, Torino, 2019, 119 e segg.
[2] Si veda il dossier della Camera e del Senato per l’esame della legge europea, alle pagg. best crossfit accessories workout routines 21 e segg.
http://www.astrid-online.it/static/upload/doss/0000/dossier_stud_2945_1328716_366167.pdf
[3] Rubrica che ora diventa “attuazione della direttiva 2000/78 per la parità di trattamento in materia di occupazione e condizioni di lavoro e della direttiva 2014/54/UE relativa alle misure intese ad agevolare l’esercizio dei diritti conferiti ai lavoratori nel quadro della libera circolazione dei lavoratori”.
[4] Che così recita: “In ogni caso compie un atto di discriminazione…. il datore di lavoro o i suoi preposti i quali….. compiano qualsiasi atto o comportamento che produca un effetto pregiudizievole discriminando, anche indirettamente, i lavoratori in ragione della loro appartenenza … ad una cittadinanza.”
[5] Che così recita “In ogni caso compie un atto di discriminazione….chiunque illegittimamente imponga condizioni piu' svantaggiose o si rifiuti di fornire l'accesso … all'alloggio…”
[6] Sentenza 261/83 del 12.7.1984, Castelli.
[7] Sentenze pregiudiziali 249/83, Hoeckx e 122/84, Scrivner pronunciate entrambe il 27.03.85, alle quali è seguita la condanna del Belgio con la sentenza C-326/90 del 10.11.1992, Commissione c. Belgio.
[8] Sentenze 157/84 del 6.06.1985, Frascogna 1 e 256/86 del 9.07.1987, Frascogna 2.
[9] Sentenza C-310/91 del 27.05.1993, Schmid.