Indirect discrimination and the burden of proof in UK antidiscrimination law
La sentenza Essop and others riunisce in realtà due controversie entrambe relative alle discriminazioni indirette. La sentenza è l’occasione per la Supreme Court di chiarire, da un lato, la nozione generale di discriminazione indiretta e, dall’altro, di determinare gli elementi essenziali oggetto di prova.
Essop and others decision brings together two cases both concerning indirect discrimination. In its ruling, the UK Supreme Court is concerned with clarifying the general notion of indirect discrimination and determining the essential elements of proof.
- Introduzione
La sentenza oggetto di analisi – Essop and others v Home Office (UK Border Agency) e Naeem v Secretary of State for Justice [2017] UKSC 27 – è stata pronunciata nel 2017 dalla Supreme Court of United Kingdom e concerne due controversie riunite riguardanti il tema delle discriminazioni indirette. Infatti, i ricorsi sono connessi da un fil rouge: in entrambi i casi i ricorrenti lamentavano una discriminazione derivante dall’applicazione dei criteri di progressione di carriera e di retribuzione generali. Secondo la Corte tali criteri, sebbene all’apparenza neutri, davano adito in entrambi i casi a discriminazioni indirette.
L’esame congiunto dei ricorsi è l’occasione per la Supreme Court di affermare alcuni principi giuridici fondamentali per l’interpretazione della disciplina antidiscriminatoria britannica prevista dall’Equality Act del 2010. In particolare la Corte definisce in modo netto cosa si intende per discriminazione indiretta ed enuclea gli elementi essenziali oggetto di prova.
In merito alla definizione di discriminazione indiretta, dal semplice confronto fra la nozione inglese e quella italiana, si scorge la sua matrice comune che si radica nel quadro del diritto eurounitario. La Supreme Court afferma infatti che una discriminazione indiretta ha luogo quando un datore di lavoro applica una disposizione, un criterio o una procedura che, sebbene appaia neutra, è idonea a creare uno ‘svantaggio’ ad un gruppo sociale.
In relazione, invece, agli elementi essenziali oggetto di prova, la Corte specifica che nel quadro del diritto britannico si deve guardare all’esito prodotto dalla disposizione, dal criterio o dalla procedura applicata dal datore di lavoro: una discriminazione è tale semplicemente se produce un effetto discriminatorio in concreto. Ciò implica che, ai fini della sussistenza della discriminazione indiretta, è necessario un nesso causale tra la singola misura datoriale e il particolare svantaggio subito. Inoltre perché si concretizzi una discriminazione indiretta la disposizione, il criterio o la procedura non deve necessariamente mettere in posizione di svantaggio ogni membro del gruppo protetto, basta una idoneità valutata in concreto o sulla base di prove statistiche. La Corte afferma, poi, che la ragione dello svantaggio può non essere di per sé illecita, o sotto il controllo del datore di lavoro, essa è comunque sanzionabile se si dimostra che la misura ha causato la discriminazione in base al test “but-for” secondo cui una azione è causa di un danno se, senza l’azione, il danno non si sarebbe verificato.Ad ogni modo è sempre possibile da parte del datore di lavoro dimostrare la ragionevolezza della misura adottata e quindi evitare la sanzione per la discriminazione.
Essop and others costituisce, senza dubbio, uno dei precedenti più importanti in materia di discriminazione indiretta che rimane saldo nella giurisprudenza britannica. Nell’analizzarla, ci si soffermerà dapprima sui fatti di causa e quindi sugli assunti giuridici che la Corte ha tratto dalle due controversie.
- Fatti di causa
La prima controversia riguarda una class action di impiegati dello Home Office ed è fondata su un rapporto del 2010 che aveva stabilito che i candidati neri e delle minoranze etniche, e i candidati più anziani, avevano tassi di riuscita del test Core Skills Assessment (CSA) – per la progressione di carriera – più bassi rispetto ai candidati bianchi e più giovani, senza che vi fosse un motivo ragionevole. In risposta, lo Home Office aveva sostenuto che la sezione 19, par. 2, lett. b) dell’Equality Act del 2010 poneva in capo ai ricorrenti l’onere di provare che lo scarso tasso di riuscita del CSA fosse correlato alla razza o all’età. L’Employment Tribunal e l’Employment Appeal Tribunal avevano accolto questa tesi. La Supreme Court, invece, accoglie il ricorso e rimette la causa all’Employment Tribunal.
La seconda controversia riguarda il ricorso presentato da un imam, cappellano nel servizio penitenziario, che prima del 2002 aveva lavorato a chiamata, in ragione del basso numero dei detenuti musulmani. Assunto come dipendente a tempo indeterminato nel 2004, si era trovato svantaggiato in relazione al sistema di retribuzione che per i cappellani prevedeva una progressione stipendiale basata sull’anzianità di servizio. L’immediata conseguenza per l’imam era una retribuzione inferiore rispetto a quella media dei colleghi cappellani cristiani, i quali vantano una maggiore anzianità. Il ricorrente, indicava nello schema di retribuzione incrementale applicato dall’amministrazione penitenziaria la causa di una discriminazione indiretta operata ai danni dei cappellani musulmani o asiatici, in quanto relativo a una funzione per la quale l’anzianità di servizio non persegue alcuno scopo utile quale parametro di capacità o esperienza. Se l’Employment Tribunal ha ritenuto giustificata la discriminazione indiretta tout court; l’Employment Appeal Tribunal ha precisato che lo schema retributivo non era indirettamente discriminatorio perché i cappellani impiegati prima del 2002 dovevano essere esclusi dal confronto tra i due gruppi e perché non era sufficiente dimostrare che back hiit workout il criterio dell’anzianità di servizio avesse un impatto sui cappellani musulmani dovendo essere anche dimostrato che la ragione di tale impatto derivasse dalla caratteristica protetta della razza, dell’etnia o della religione.
La Corte Suprema disattende queste affermazioni, ma respinge il ricorso per una ragione di diritto processuale (non era stata censurata con l’impugnazione la valutazione in fatto dell’Employment Tribunal della proporzionalità dell’effetto discriminatorio rispetto allo scopo perseguito).
- La discriminazione indiretta nel diritto britannico
Questi due ricorsi riuniti sono molto interessanti non tanto per l’esito delle decisioni, quanto per l’iter logico della motivazione. Entrambi i casi concernono ipotesi di discriminazione indiretta, il primo per motivi di razza ed età, mentre il secondo per religione, razza e origine etnica .
Il punto di partenza del ragionamento della Corte riguarda il chiarimento di cosa si debba intendere in base alla normativa britannica per discriminazione indiretta. Perciò i giudici ripercorrono l’evoluzione storica del diritto antidiscriminatorio evidenziando il fondamentale contributo del diritto eurounitario in questo campo. In particolare la norma di riferimento per la Supreme Court è quella prevista nella sezione 19 dell’Equality Act del 2010 che recita:
A person (A) discriminates against another (B) if A applies to B a provision, criterion or practice which is discriminatory in relation to a relevant protected characteristic of B’s.
L’Equality Act del 2010 si inserisce in una generale riforma del diritto antidiscriminatorio britannico finalizzata ad adattarlo alle direttive europee nn. 97/80/CE, 2000/43/CE, 2000/78/CE, 2004/113/CE e 2006/54/CE. Quindi, in estrema sintesi, per il diritto inglese, una discriminazione indiretta si verifica quando un datore di lavoro applica “an apparently neutral provision, criterion or practice (‘PCP’)”[1] che è però idonea a mettere in condizione di svantaggio un determinato gruppo di persone che hanno una caratteristica protetta, a meno che il datore di lavoro possa dimostrare che la PCP è un mezzo proporzionato per raggiungere uno scopo legittimo.
Definito il perimetro giuridico entro cui muoversi, la Corte passa a precisare gli elementi essenziali oggetto di prova. Questi elementi, che sono estremamente rilevanti perché determinano il buon esito di un ricorso, sono delineati dapprima in astratto e quindi applicati, in concreto, per risolvere entrambe le controversie.
In primo luogo la Corte afferma che, poiché la normativa non prevede alcun requisito esplicito che spieghi come una disposizione, un criterio o una procedura concretizzi una discriminazione indiretta, ai fini dell’onere della prova è sufficiente che tale misura produca una discriminazione in concreto, in cui effetti nefasti devono essere appositamente allegati dalla parte che li subisce.[2] Secondariamente, la discriminazione indiretta, a differenza di quella diretta, non richiede un nesso causale tra la caratteristica protetta e il trattamento discriminatorio, ma presuppone che sussista una relazione di causalità tra la disposizione, il criterio o la procedura adottata dal datore di lavoro e il particolare svantaggio subito dal gruppo e/o dall’individuo.[3] In terzo luogo, la causa dello svantaggio non deve essere di per sé antigiuridica o essere sotto il controllo del datore di lavoro. È sufficiente che la misura adottata sia idonea a causare in concreto uno svantaggio in base al test “but-for” secondo cui una azione è causa di un danno se, senza l’azione, il danno non si sarebbe verificato.[4] In quarto luogo, perché si concretizzi discriminazione indiretta la misura in questione non deve necessariamente mettere in posizione di svantaggio ogni membro del gruppo che condivide la caratteristica protetta è sufficiente che essa sia in concreto idonea creare una posizione di irragionevole disparità fra persone con e senza la caratteristica specifica.[5] In quinto luogo, la sussistenza di una relazione fra condotta discriminatoria e condizione di inferiorità provocata dalla stessa può essere stabilita anche sulla base di prove statistiche.[6] Infine, un’ultima caratteristica riguarda la possibilità per la parte datoriale di offrire prova della legittimità della misura adottata. Sul punto la Corte sottolinea come non si possa vedere tale onere come irragionevole o eccessivo in virtù del principio di prossimità della prova perché: “[…] un datore di lavoro saggio controllerà come le sue politiche e pratiche hanno un impatto su vari gruppi e, se scopre che hanno un qualche impatto negativo, cercherà di vedere cosa può essere modificato per rimuoverlo raggiungendo comunque il risultato desiderato.”[7]
Questi sei elementi sono salienti inquanto definiscono l’oggetto della prova nel caso di discriminazione indiretta. Sulla base degli stessi, la Corte ha ritenuto che i membri della class action contro lo Home office avessero effettivamente subito una discriminazione indiretta basata sull’origine etnico-raziale e sull’età dei soggetti coinvolti. Lo Home office non era infatti stato in grado di dimostrare la correttezza della disposizione da esso adottata, mentre i ricorrenti avevano provato, per via statistica, lo svantaggio, il nesso di causalità e l’idoneità lesiva della disposizione. Pertanto, la Supreme Court, nell’accogliere il ricorso, ha annullato la sentenza rinviando la questione al tribunale di primo grado.
Questi stessi elementi sono rilevanti anche ai fini della risoluzione del caso Naeem. In particolare la Corte si sofferma su due profili rilevanti: il primo riguarda il confronto per la verifica dell’impatto discriminatorio della misura datoriale, mentre il secondo la valutazione delle cause di giustificazione.
In merito al primo elemento i giudici affermano che il punto determinante è legato alla scelta del pool per il test di impatto della discriminazione. Questo pool deve essere determinato alla luce delle indicazioni dello Statutory Code of Practice del 2011 – preparato dalla Equality and Human Rights Commission – che, nel commentare la sezione 14 dell’Equality Act del 2006, al paragrafo 4.18 afferma:
In general, the pool should consist of the group which the provision, criterion or practice affects (or would affect) either positively and negatively, while excluding workers who are not affected by it, either positively or negatively.
In altre parole la Corte precisa che il confronto per la verifica dell’impatto discriminatorio delle misure datoriali deve essere fatto comprendendo nei due gruppi in comparazione tutti gli individui portatori e tutti quelli privi del fattore tutelato dall’ordinamento.[8] Così operando, la Corte valuta l’impatto della misura discriminatoria sull’intero gruppo di cappellani penitenziari rilevando che, in concreto, la discriminazione nei confronti degli imam musulmani sussisteva.
Riconosciuta la sussistenza della discriminazione, a detta dei giudici, viene in gioco il secondo profilo rilevante, ossia le cause di giustificazione datoriali. A tal proposito, la Corte chiarisce che una causa può essere idonea a giustificare l’adozione di una misura discriminatoria se lo scopo perseguito con tale misura è legittimo e se il datore di lavoro dimostra di aver preso in adeguata considerazione possibili alternative che determinino un minor svantaggio. La ratio di questa lettura è espressamente statuita dalla Corte che afferma che parte dell’obiettivo del diritto antidiscriminatorio è di andare verso una progressiva riduzione e/o eliminazione degli svantaggi sofferti da un gruppo che condivide una caratteristica protetta.[9] In questo modo i giudici di Londra richiamano il criterio di proporzionalità fra fini e mezzi misurato in base al test “no more than necessary” che prevede che il datore di lavoro sia obbligato a tentare di prevenire la discriminazione con ogni mezzo, purché ciò non costituisca un onere eccessivo. Il test deve essere effettuato tenendo conto di tutti i mezzi possibili e rientra fra le questioni di fatto il cui onere della prova ricade sul datore di lavoro, mentre al lavoratore spetta di indicare le possibili alternative.
Nonostante la Corte riconosca fondatezza alle pretese del lavoratore, ne rigetta comunque il ricorso sulla base di una motivazione procedurale: la parte ricorrente non aveva, infatti, censurato con l’impugnazione la valutazione in fatto dell’Employment Tribunal della proporzionalità dell’effetto discriminatorio rispetto allo scopo perseguito.
- Conclusione
È bene ribadire, in conclusione, che per il diritto britannico, influenzato dal diritto eurounitario, una discriminazione indiretta ricorre quando una disposizione, un criterio o una procedura sono apparentemente neutri, ma di fatto sfavoriscono un determinato gruppo di persone. Sulla base di questa nozione, traendoli dalla legislazione e dalle due fattispecie concrete, la Supreme Court definisce tutti gli elementi che devono concorrere perché possa considerarsi provata una discriminazione indiretta. Tali elementi sono: a) l’allegazione degli effetti discriminatori prodotti dall’implementazione a livello aziendale di determinate disposizioni, criteri o procedure; b) la sussistenza di un nesso causale fra la misura adottata dal datore di lavoro e il particolare svantaggio subito dal gruppo e/o dall’individuo; c) l’idoneità della disposizione, criterio o procedure a causare in concreto uno svantaggio valutato in base al test “but-for”; d) la non obbligatorietà di una lesione specifica individuale, ma la sufficienza della lesione del gruppo; e) la possibilità di provare la sussistenza di una relazione fra condotta discriminatoria e condizione di inferiorità provocata dalla stessa anche sulla base di prove statistiche; f) la possibilità per la parte datoriale di offrire prova della legittimità della misura adottata.
Oltre a determinare l’oggetto della prova, la sentenza permette di chiarire anche altri due profili: il modo in cui si deve operare il confronto per la verifica dell’impatto discriminatorio di una disposizione, di un criterio o di una procedura e la valutazione delle cause di giustificazione. Rispetto al primo profilo, la Corte stabilisce che il confronto deve avvenire ricomprendendo nei due gruppi in comparazione tutti gli individui portatori del fattore di rischio e tutti gli individui privi del fattore di rischio. Mentre in merito alla giustificazione la Corte afferma che non è sufficiente il mero scopo legittimo alla base della disposizione, del criterio o della procedura, ma è necessario che il datore di lavoro operi in modo da prevenire la discriminazione.
Michele Mazzetti, dottorando in Studi Internazionali presso l’Università di Trento
[1] Corsivo aggiunto. Cfr. paragrafi da 19 a 21 della sentenza.
[2] In particolare al paragrafo 24 della sentenza si legge: “There is no requirement in the Equality Act 2010 that the claimant show why the PCP puts one group sharing a particular protected characteristic at a particular disadvantage when compared with others. It is enough that it does. […]”
[3] In particolare al paragrafo 25 della sentenza si legge: “Direct discrimination expressly requires a causal link between the less favourable treatment and the protected characteristic. Indirect discrimination does not. Instead it requires a causal link between the PCP and the particular disadvantage suffered by the group and the individual. […]” Inoltre, al paragrafo 33 della sentenza si legge: “[…] The essential element is a causal connection between the PCP and the disadvantage suffered, not only by the group, but also by the individual […].”
[4] In particolare al paragrafo 26 della sentenza si legge: “These various examples show that the reason for the disadvantage need not be unlawful in itself or be under the control of the employer or provider (although sometimes it will be). They also show that both the PCP and the reason for the disadvantage are “but for” causes of the disadvantage: removing one or the other would solve the problem. […]”
[5] In particolare al paragrafo 27 della sentenza si legge: “A fourth salient feature is that there is no requirement that the PCP in question put every member of the group sharing the particular protected characteristic at a disadvantage. […] The group was at a disadvantage because the proportion of those who could pass it was smaller than the proportion of white or younger candidates. If they had all failed, it would be closer to a case of direct discrimination (because the test requirement would be a proxy for race or age). […]”
[6] In particolare al paragrafo 28 della sentenza si legge: “ […] it is commonplace for the disparate impact, or particular disadvantage, to be established on the basis of statistical evidence […] Statistical evidence is designed to show correlations between particular variables and particular outcomes and to assess the significance of those correlations. But a correlation is not the same as a causal link.”
[7] In particolare al paragrafo 29 della sentenza si legge: “A final salient feature is that it is always open to the respondent to show that his PCP is justified […] There is no finding of unlawful discrimination until all four elements of the definition are met. The requirement to justify a PCP should not be seen as placing an unreasonable burden upon respondents. Nor should it be seen as casting some sort of shadow or stigma upon them. There is no shame in it […] a wise employer will monitor how his policies and practices impact upon various groups and, if he finds that they do have a disparate impact, will try and see what can be modified to remove that impact while achieving the desired result.”
[8] In particolare al paragrafo 41 della sentenza si legge: “In other words, all the workers affected by the PCP in question should be considered. Then the comparison can be made between the impact of the PCP on the group with the relevant protected characteristic and its impact upon the group without it […] There is no warrant for including only some of the persons affected by the PCP for comparison purposes. In general, therefore, identifying the PCP will also identify the pool for comparison.”
[9] In particolare al paragrafo 47 della sentenza si legge: “Where part of the aim is to move towards a system which will reduce or even eliminate the disadvantage suffered by a group sharing a protected characteristic, it is necessary to consider whether there were other ways of proceeding which would eliminate or reduce the disadvantage more quickly.”