di Marta Lavanna
La nota segnala i tre motivi di interesse della pronuncia torinese cioè l’applicazione dell’astreinte di cui all’art. 614bis cpc, la connessione della pronuncia con la discutibile previsione dell’art. 40, comma 6, TU immigrazione e il diniego del risarcimento sul presupposto che l’emanazione del Regolamento contenente le clausole discriminatorie costituisca atto politico.
The note points out the three interesting elements of the Turin ruling, namely the application of the astreinte provided for in Article 614bis of the Code of Civil Procedure, the connection of the ruling with the questionable provision of Article 40, paragraph 6, Single Immigration Act (TUI) and the denial of compensation on the assumption that the issuance of the Regulation containing the discriminatory clauses constitutes a political act.
L’ordinanza del Tribunale di Torino va segnalata almeno per tre motivi.
In primo luogo per la riconosciuta applicabilità dell’astreinte di cui all’art. 614-bis c.p.c. Si tratta di un’opzione non isolata (per altri recenti casi analoghi si veda: Corte Appello Trento 23.6.2021, Trib. Udine 1.2.2023, entrambe in banca dati www.asgi.it), che nuovamente conferma l’insufficienza dell’apparato di cui agli artt. 44 TU Immigrazione e 28 d.lgs. 150/11 per ottenere l’esecuzione dell’ordine di rimozione di atti amministrativi discriminatori. L’ammissibilità di un ordine in tal senso ad opera del giudice ordinario risulta ormai pacificamente ammessa dalla giurisprudenza di merito, avallata dalla nota sentenza Cass. n. 7186/2011 che faceva riferimento alla “atipicità” dei poteri del giudice ordinario in materia di discriminazione. Che poi nella maggioranza dei casi le PPAA si attengano alla pronuncia giudiziale (per correttezza istituzionale o per timore della pur generica sanzione penale richiamata dall’art. 44, comma 8, TU immigrazione), è anch’esso un dato pacifico; tuttavia, laddove ciò non avvenga, i rimedi sono davvero modesti, non bastando in tal senso il richiamo al giudizio di ottemperanza ex art. 114 CPA che presuppone il passaggio in giudicato. Da qui l’opportunità che l’applicazione dell’art. 614-bis c.p.c. diventi uno strumento ordinario per sollecitare l’efficienza della PA e garantire il rispetto delle decisioni giudiziali in una materia così delicata come quella della discriminazione.
Un secondo motivo riguarda un aspetto di merito della questione di causa, cioè la censura del Tribunale rispetto a un regolamento regionale che prevedeva, tra l’altro, il requisito della “attività lavorativa stabile” per i soli cittadini extra UE, ai fini dell’accesso alle graduatorie per alloggi di edilizia residenziale pubblica (ERP).
Il requisito è parzialmente diverso da quello previsto dall’art. 40, comma 6, TU Immigrazione per gli stranieri che, pur non essendo titolari di permesso di lungo periodo, siano comunque titolari di un permesso almeno biennale: anche costoro sono ammessi, ma solo a condizione che svolgano “regolare attività di lavoro subordinato o autonomo”. Il requisito è dunque parzialmente diverso da quello previsto dalla norma regionale (“attività lavorativa stabile”) e dunque il Tribunale ha avuto gioco facile nel dichiarare l’illegittimità di quest’ultimo.
Tuttavia la vicenda riporta l’attenzione appunto sull’art. 40, comma 6, citato che, benché giunto raramente all’attenzione dei giudici, prevede in realtà, per gli stranieri (salvo per coloro che sono titolari di un permesso di lungo periodo) una differenza di trattamento del tutto illogica: il cittadino italiano viene infatti ammesso alle graduatorie anche se disoccupato (e, anzi, viene ammesso con punteggio normalmente più favorevole, visto che, se disoccupato, avrà presumibilmente un reddito più basso); il cittadino straniero, se disoccupato, non può neppure essere ammesso alla graduatoria, con l’aggravante che il riferimento a una “regolare attività” non spiega neppure quale sia l’entità della attività “regolare” che può essere richiesta, esponendo così l’interessato a valutazioni ampiamente discrezionali dell’Amministrazione.
A parte tale evidente illogicità, va anche considerato che la direttiva 2011/98 prevede un vincolo di parità di trattamento dei titolari di permesso unico lavoro nell’accesso all’abitazione, vincolo sicuramente incompatibile con una differenza come quella prevista dall’art. 40, comma 6, TU Immigrazione. La previsione eurounitaria, è ben vero, è derogabile da parte degli Stati membri (così prevede infatti l’art. 12, par. 2, lett.g), ma vale in proposito il consolidato principio secondo il quale le deroghe agli obblighi di parità devono essere espresse e non possono consistere nel semplice mantenimento in vita di previsioni antecedenti (come sarebbe nel nostro caso) emanate quando il vincolo di parità neppure esisteva (in tal senso cfr. CGUE 25.11.2020, C‑303/19 e C‑302/19 in materia di ANF).
L’ordinanza del Tribunale di Torino indica quindi una strada che andrebbe considerata anche con riferimento alla legislazione nazionale.
Il terzo e principale motivo di interesse richiede di segnalare in premessa una peculiarità della vicenda: una norma così palesemente illegittima come quella del requisito quinquennale per i soli stranieri era sopravvissuta nell’ordinamento regionale per oltre 30 anni, determinando l’ingiusta esclusione da un bene fondamentale di molti cittadini stranieri. Rilevando ciò, l’associazione ricorrente aveva insistito per un provvedimento che, se pure in modo indiretto, tenesse conto delle numerosissime lesioni realizzatesi nel corso del trentennio e producesse quell’effetto dissuasivo che, come noto, non può ormai più ritenersi estraneo al sistema della responsabilità civile.
Il Giudice, pur accogliendo in pieno le domande della associazione ricorrente, ha negato il risarcimento del danno, non tanto sulla base del frequente argomento relativo alla inammissibilità di danni punitivi, quanto argomentando sul carattere di “atto politico” del Regolamento regionale.
L’argomento tocca un punto rilevantissimo nel difficile rapporto tra divieti di discriminazione e azione amministrativa (per un caso clamoroso di conflitto si veda si veda Guariso, L’uguaglianza è razionale: breve storia di una discriminazione degli stranieri nella Regione Friuli VG, in questo sito) ma non appare del tutto convincente.
A parte il fatto che l’orientamento giurisprudenziale maggioritario sembra incline a restringere quanto più possibile l’ambito di insindacabilità dell’atto politico (si veda tra le molte Cass. SS.UU. 14/05/2014 n.10416 secondo la quale “l’ambito di estensione del potere discrezionale, anche quello amplissimo che connota un’azione di governo, è circoscritto da vincoli posti da norme giuridiche che ne segnano i confini o ne indirizzano l’esercizio”) ciò che sembra più rilevante è che il tema della insindacabilità attiene appunto alla possibilità di sindacare o meno l’atto, sottoponendolo al vaglio del giudice, ma non al tema del risarcimento del danno.
Se il Regolamento regionale fosse insindacabile in quanto atto politico non sarebbe possibile neppure l’accertamento della sua contrarietà ai vincoli posti dal divieto di discriminazione, sicché si troverebbe ad operare in uno spazio di libertà assoluta, persino qualora – per assurdo – riservasse gli alloggi pubblici ai soli bianchi o ai soli ariani; privando così il diritto antidiscriminatorio di quel ruolo “antimaggioritario” (cioè appunto di tutela delle minoranze a fronte di scelte “politiche” operate dalla maggioranza) che costituisce invece la sua specificità.
Ma ovviamente le cose non stanno così, come il Tribunale torinese ha senz’altro ritenuto nel momento in cui ha accolto il ricorso e censurato la scelta “politica” di richiedere requisiti aggiuntivi ai cittadini stranieri.
La tesi sembra quindi prospettare una sorta di “insindacabilità attenuata” che consente l’accertamento del carattere discriminatorio e dunque dell’erroneo esercizio della discrezionalità politica suscettibile di censura davanti al giudice, ma che non potrebbe dare luogo a risarcimento del danno. Il che suscita qualche interrogativo, in particolare rispetto alla funzione dissuasiva che il risarcimento può assumere a fronte di opzioni amministrative che, proprio perché rispondenti alle scelte politiche della maggioranza, rischiano di essere reiterate anche successivamente alla decisione giudiziale.
Marta Lavanna, avvocata del foro di Torino