Commento a T. Bologna Sez. Lav. 31.12.2021 n. 862 R.G.
Discrimination and parental care: is the change in the work schedule imposed by the employer relevant?
L’analisi del decreto del T. Bologna pone in luce la portata applicativa del divieto di discriminazione nei confronti dei genitori lavoratori, secondo l’art. 25, co. 2-bis del D. Lgs. 198/2006 (Codice Pari Opportunità), in caso di modifica dell’orario di lavoro, e l’irrilevanza delle difese presentate dalla società convenuta, quale un contratto collettivo aziendale in materia di conciliazione tra lavoro professionale e cura familiare, approfondendo in particolare il significato delle giustificazioni del datore di lavoro basate sul criterio della “necessità” delle misure organizzative.
The case comment analyses the decision of the Tribunal of Bologna that applies the prohibition of discrimination provided by Article 2, § 2-bis of the Legislative Decree n. 198/2006 (Italian Equal Opportunity Code) to a case of change of the work schedule imposed by the employer. According to the Tribunal, this change, entailing negative effects to the employees with children, cannot be justified by the existence of a company collective agreement on the reconciliation of professional and family care work, neither the employer proved the “necessity” of the organisational measures.
Sommario: 1. L’oggetto della controversia e il ricorso della consigliera regionale di parità – 2. La molteplicità delle questioni in gioco – 3. Le giustificazioni dell’impresa a fronte degli effetti svantaggiosi derivanti dal cambio del regime di orario – 4. Conclusioni
1. L’oggetto della controversia e il ricorso della consigliera regionale di parità
La pronuncia si segnala sia per le molteplici questioni tecnico – giuridiche affrontate che, sebbene non del tutto nuove1, presentano una rilevanza indiscutibile in materia di discriminazione, sia per la visione assiologica complessiva volta a “prendere sul serio” il diritto, in particolare delle lavoratrici, a mantenere il posto di lavoro senza rinunciare alla cura genitoriale e al benessere della prole, in coerenza con l’art.37, co. 1 Cost. e l’art. 33 Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. La vicenda ha diverse sfaccettature in cui vengono in luce la portata del divieto di discriminazione e dello scrutinio giudiziale, in particolare nell’esame delle esigenze aziendali a fronte degli effetti svantaggiosi sulla cura genitoriale, facendo emergere altresì il profilo della ripartizione dell’onere della prova. Né minor rilievo rivestono le questioni attinenti al contratto collettivo “di filiera” stipulato da Cgil, Cisl e Uil con la società, e, per altro verso, alle restrizioni organizzative derivanti dai provvedimenti legislativi in relazione alla pandemia.
La controversia è originata dalle pesanti difficoltà in cui si sono trovate le dipendenti di un’azienda, dopo il passaggio dell’appalto nel settore della logistica ad una nuova società, a causa della sua decisione di modificare il regime di orario: al posto dell’unico turno centrale dalle 8.30 alle 14.30 venivano introdotti due turni (5 – 14 e 14 -22). L’impossibilità di gestire in modo soddisfacente il lavoro e la cura familiare aveva indotto molte lavoratrici con figli piccoli a presentare le dimissioni, a conferma dell’incidenza che il regime di orario proietta sulla permanenza o meno delle donne nel lavoro, come rilevato anche dalla recente Direttiva 2019/1158/UE2.
Il problema non era stato risolto neppure quando, al termine di un periodo di sospensione a causa della pandemia, Cgil, Cisl, Uil avevano stipulato con la società un contratto collettivo “di filiera” che prevedeva “azioni positive” che, pur migliorando molti istituti volti alla “conciliazione tra lavoro professionale e compiti di cura genitoriale”3 riservava il mantenimento del turno “centrale” solo fino al compimento di 1 anno di età del figlio. Né miglior sorte era toccata all’obbligo di valutazione dell’impatto che l’adibizione ai nuovi turni di lavoro avrebbe avuto nei confronti dei genitori, ed in particolare delle lavoratrici che costituivano l’80% del personale, previsto da un successivo contratto collettivo, ma di fatto disatteso. Tale situazione ha dato origine al ricorso promosso avanti al giudice dalla Consigliera regionale di Parità, contattata da alcune lavoratrici e dal sindacato di base cui aderivano, ritenendo sussistente una discriminazione a carattere collettivo.
2. La molteplicità delle questioni in gioco
Le questioni affrontate consistono in primo luogo nell’accertamento dei presupposti contemplati dall’art. 25, co. 2-bis del D. Lgs. 198/2006 (Codice pari opportunità), che qualifica come discriminatorio ogni “trattamento meno favorevole per i genitori lavoratori”, termine ampio riferibile ad ogni manifestazione delle prerogative datoriali. L’adibizione del personale ad un regime di orario diverso, essendo esercizio di jus variandi, rientra nella fattispecie descritta se provoca un impatto negativo sui soggetti protetti.
Nel caso, l’onere della prova a carico della ricorrente viene assolto mediante l’acquisizione di testimonianze sui profondi disagi nell’organizzazione familiare derivanti soprattutto dalla sveglia mattutina molto anticipata (ore 5) cui erano costrette le madri ma anche i figli, con conseguenze sul benessere dei bambini e sul loro rendimento scolastico4. Le circostanze sono state correttamente inquadrate come discriminazione indiretta, ai sensi dell’art.25, co. 3, integrando le condizioni normativamente previste, ovvero “fondare in termini precisi e concordanti” (art. 40 D. Lgs. 198/06) la presunzione di discriminazione derivante dall’esistenza di una decisione in sé neutra ma causa di “particolare svantaggio”, secondo i canoni della giurisprudenza euro-unitaria5, nei confronti dei soggetti protetti dai divieti, in questo caso i genitori – lavoratori. Di conseguenza, in virtù dello spostamento dell’onere della prova a carico della società convenuta, doveva essere provata la sussistenza di esigenze aziendali non solo “legittime”, ma altresì “adeguate e necessarie” all’obiettivo da raggiungere.
In merito, come si è accennato, viene preliminarmente in luce la pretesa natura dirimente dei contratti collettivi “di filiera”. La risposta negativa fornita a tale questione dal decreto in commento si basa sul fatto che le “azioni positive” ivi previste, se pure utili, non riguardavano l’oggetto del contendere, ovvero l’introduzione dei turni (decreto del T. Bologna, p. 12). D’altra parte, secondo i principi generali che governano i divieti di discriminazione diretta e indiretta, ovvero in relazione al rango primario del diritto a “non essere discriminati/e”, neppure le clausole dei contratti collettivi possono sottrarsi al sindacato giudiziale, in quanto suscettibili di “incorporare” una discriminazione. Ciò non significa sminuire l’importanza del contratto collettivo per favorire il work – life balance che prevedeva soluzioni interessanti, ma correttamente non è stato considerato risolutivo6.
Sotto altro profilo, neppure la verifica compiuta dall’ITL, su richiesta del sindacato autonomo, appariva dirimente, essendo limitata alla ricerca di eventuali discriminazioni di più agevole constatazione, che infatti vengono escluse, e dunque non rilevante ai fini del thema decidendum, data la complessità degli accertamenti e valutazioni connessi alla sussistenza di una discriminazione indiretta (decreto del T. Bologna, p.6).
3. Le giustificazioni dell’impresa a fronte degli effetti svantaggiosi derivanti dal cambio del regime di orario
La parte più interessante del provvedimento riguarda la valutazione delle ragioni addotte dal datore di lavoro secondo la parziale inversione dell’onere della prova, che si svolge in base ai parametri consolidati della legittimità e proporzionalità, consistente nell’essere “adeguate e necessarie” rispetto al fine perseguito, oltre la mera convenienza per l’impresa.
Nel caso in esame, come rileva la decisione del Tribunale di Bologna (p.12 e 13), non sussistono dubbi né sulla legittimità delle esigenze aziendali di aumento dei turni di lavoro – giustificate dal perseguimento della finalità di adeguare l’organizzazione del lavoro alle esigenze sia di tipo spaziale sia della filiera produttiva – né sulla loro congruità funzionale a tale obiettivo. Al contrario, la loro effettiva “necessità” è rimasta priva di effettivi riscontri probatori dato che, in primo luogo, la tesi basata sulla stretta correlazione con le restrizioni dovute alla pandemia è stata smentita dalla stessa testimonianza della convenuta da cui risultava che la decisione organizzativa di modificare il regime di orario era stata già assunta e comunicata nel 2019, prima dell’inizio delle restrizioni dovute alla pandemia, ed era stata confermata al personale come regime normale da seguire non appena cessata l’applicazione delle norme anti-Covid, in quanto rispondente a ragioni organizzative a carattere permanente (p. 6 del decreto).
In secondo luogo, le misure in contestazione non presentano il carattere della “necessità” rispetto all’organizzazione aziendale alla luce dei criteri definiti dal sistema di regole emergente dall’ordinamento multilivello in materia. Venendo in gioco una possibile discriminazione, occorre andare oltre i limiti già riconosciuti dalla giurisprudenza allo jus variandi non solo per i part-timers ma anche nei confronti dei lavoratori a tempo pieno (Militello 2020, p.154 – 155), quali il rispetto della programmabilità dei tempi esistenziali dei dipendenti, oppure l’interesse al mantenimento del medesimo orario di lavoro in considerazione di particolari esigenze familiari, secondo gli artt. 1175 e 1375 c.c. (Fenoglio 2012, p.139). Nel diritto antidiscriminatorio, il principio di proporzionalità quale principio generale del diritto di fonte euro-unitaria7, implica il parametro ancor più rigoroso della “stretta necessità” delle misure con effetti discriminatori, nel senso che esse non devono “andare oltre quanto indispensabile dal punto di vista organizzativo per il raggiungimento delle finalità previste”, da cui discende la rilevanza di possibili alternative che il datore di lavoro ha l’obbligo di ricercare se non comportano costi aggiuntivi8.
Il sindacato giudiziale compiuto in merito al carattere “necessario” dell’adibizione di lavoratrici con figli piccoli al nuovo regime di orario strutturato sul doppio turno è coerente con tali parametri, verificando anzitutto la necessità o meno che l’intera platea dei lavoratori fosse adibita al doppio turno. Dalle testimonianze, tra cui quella del RLS, è emersa la possibilità di escludere da tale regime un certo numero di dipendenti che potevano essere adibite/i al turno unico centrale, mantenuto, come previsto dai contratti collettivi aziendali, per le lavoratrici con figli fino al primo anno di vita, ma non usufruito dato che “il rientro in azienda avveniva successivamente” (decreto, p.16). Pertanto, la pronuncia correttamente ritiene non assolta la prova a carico del datore di lavoro circa la “necessità” della misura contestata e, trattandosi di discriminazione collettiva, ne consegue l’ordine di adottare il “piano di rimozione delle discriminazioni accertate”, secondo l’art. 37 D. Lgs.198/2006. In merito, è stato operato un bilanciamento tra le esigenze dell’impresa e quelle delle lavoratrici madri individuando come criterio la «adibizione al turno centrale, o altro orario concordato, delle lavoratrici con figli fino a 12 anni, a “scorrimento” e nei limiti massimi consentiti dalle dimensioni degli spazi aziendali, in forme comunque compatibili con la funzionalità aziendale e salvo il rispetto delle normative anti – covid vigenti» da attuarsi entro tre mesi. Risulta che in effetti il piano sia stato attuato, pur con difficoltà, e in pendenza del giudizio di opposizione.
4. Conclusioni
Sotto il profilo giuridico, la decisione si colloca pienamente in linea con l’orientamento della giurisprudenza sovranazionale esplicitando che la portata del divieto di discriminazione nei confronti dei genitori lavoratori si riferisce anche alle modifiche all’orario di lavoro, qualora siano tali da creare un reale svantaggio rispetto allo svolgimento dei compiti di cura. In merito va ricordato che la riforma dell’art. 25, co. 2, attuata dalla L. 162/2021, ha inserito anche «le modifiche organizzative o incidenti sull’orario di lavoro» tra i «comportamenti» rilevanti ai fini della fattispecie di discriminazione indiretta. L’elenco ha un valore esemplificativo che esplicita un concetto già ricavabile, come attesta il decreto in commento, dall’interpretazione costituzionalmente e euro-unitariamente orientata della norma vigente. Ai fini limitati di questo commento, occorre richiamare altresì l’ulteriore modifica normativa che interviene sull’art.25, co. 2-bis inserendo dopo il termine “trattamenti” le parole «ogni modifica dell’organizzazione, delle condizioni e dei tempi di lavoro». Senza poter qui analizzare l’intera norma modificata, è apprezzabile che, pur con qualche imperfezione tecnica, il legislatore abbia consolidato l’approdo della giurisprudenza, replicando zane shawnee caverns quanto avvenuto in ambito europeo rispetto alla giurisprudenza euro-unitaria da parte delle direttive antidiscriminatorie. Sotto altro profilo, la centralità del tema dell’orario di lavoro ai fini dell’equilibrio tra attività lavorativa e compiti di cura è ulteriormente rilanciata dalla citata Dir. 2019/1158 mediante la configurazione all’art. 9 di un nuovo specifico diritto individuale a chiedere modalità di lavoro flessibili, domanda che il datore di lavoro deve prendere in considerazione bilanciando le proprie esigenze con quelle del prestatore di lavoro e dando risposta in tempi ragionevoli, motivando l’eventuale rifiuto, sottoponibile dunque al sindacato giudiziale.
Stefania Scarponi, già prof.ssa ordinaria presso l’Università di Trento
Riferimenti bibliografici
Fenoglio A. (2012), L’orario di lavoro tra legge e autonomia privata, ESI 2012, p.139
Militello M. (2020), Conciliare vita e lavoro. Strategie e tecniche di regolazione, Giappichelli
- Cfr T. Firenze n.1414/2019 in RGL 2020, II, p.309 con nota di M.D. Santos Fernandez, circa la natura discriminatoria dell’ordine di servizio di una P.A. inteso ad eliminare il diritto al “flexi-time” in entrata e in uscita. [↩]
- Dir. 2019/1158, Considerando n. 6. [↩]
- Quali il diritto a trasformare il rapporto in uno a tempo parziale per genitori con figli minori fino a 3 anni, una maggiore estensione dei congedi “facoltativi”, ovvero “parentali, il diritto ad un’aspettativa non retribuita per un massimo di sei mesi per genitori con figli fino a 3 anni, il diritto ad ulteriori 5 gg per assistere il figlio in malattia fino agli otto anni, la previsione di misure di compensazione economica consistenti in buoni spesa e servizi del valore di 30 euro per ogni settimana di effettiva e piena prestazione di lavoro. [↩]
- Colpisce la testimonianza riportata dalla decisione (p. 10 – 12) che pone in luce l’angoscia della lavoratrice dato che non era facile né trovare una baby sitter disposta a recarsi a casa a tale orario, in ogni caso non risolutiva in quanto comunque il bambino si svegliava senza riuscire più ad addormentarsi, né avere l’aiuto di altri familiari quando non si avevano nonni disponibili, oppure se anche il padre seguiva un regime a turni nel proprio lavoro, né tantomeno poter contare sui servizi pubblici per i bambini in quegli orari. [↩]
- CGUE 15.7.2015, C-83/14, Chez. [↩]
- Come emerso dall’istruttoria, la possibilità di utilizzare il turno centrale fino al compimento del primo anno riguardava pochissimi dipendenti, mentre le altre misure contemplate, come il ricorso al part-time o il prolungamento del congedo parentale, comportavano la riduzione della retribuzione, notoriamente una delle concause del gender pay gap con riflessi anche pensionistici. Va ricordato che il ricorso al part-time non è considerato soddisfacente a causa della diminuzione della retribuzione dalla citata Dir. 2019/1158, Considerando n. 6. [↩]
- CGUE 17.4. 2018, C-414/2016, Egenberger. [↩]
- Cfr. CGUE 14.3. 2017, C-157/2015, Achbita § 42 e 43. [↩]