Disability and the dismissal by reason of absences resulting from illnesses
Il contributo si propone di fornire un quadro della giurisprudenza nazionale in materia di licenziamento del lavoratore o della lavoratrice con disabilità per superamento del periodo di comporto, dando atto degli importanti progressi compiuti a tutela delle persone con disabilità sulla base della disciplina antidiscriminatoria di origine eurounitaria.
The article aims to provide an overview of the Italian case law on the dismissal of workers with disabilities by reason of intermittent absences resulting from illness and to underline the important progress made on the basis of the European anti-discrimination legislation.
*Si può leggere a questo link una rassegna della giurisprudenza di merito sul tema, tra cui alcune delle pronunce citate in questo articolo. At this link, the reader can find a selection of national case law on the issue.
1. Il licenziamento per superamento del periodo di comporto messo alla prova dalla disciplina antidiscriminatoria a tutela della disabilità
Negli ultimi anni svariate sono state le occasioni in cui i giudici di merito si sono dovuti occupare della questione relativa al licenziamento per superamento del periodo di comporto da parte di lavoratori e lavoratrici con disabilità. L’art. 2110 c.c., nel prevedere che il datore di lavoro possa recedere dal contratto quando vi sia stata una astensione dal lavoro a causa di malattia per un periodo di tempo determinato dalla legge, dal Ccnl o, in mancanza, dagli usi, non contempla, infatti, alcun meccanismo di adattamento nei confronti delle persone con disabilità. Di conseguenza, diverse sono state le domande giudiziali intese a chiedere l’applicazione dell’articolo 18, comma 1, Stat. lav., ovvero dell’articolo 1, d.lgs. 4 marzo 2015, n. 23 (volto a introdurre disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti, in attuazione della legge 10 dicembre 2014, n. 183), sul presupposto che l’applicazione del medesimo termine di comporto, per i lavoratori e le lavoratrici disabili e non, sia da considerare indirettamente discriminatorio. Tanto si afferma in quanto le persone con disabilità si trovano in uno stato di infermità che ha come ricaduta più tipica l’acuirsi della propria condizione, sotto forma di malattia o impedimento, ovvero la necessità di ricorrere in via definitiva o anche solo per un periodo di tempo, seppur prolungato, a cure specifiche, essendo di conseguenza certamente più esposte ad accumulare assenze per malattia.
Il riconoscimento giudiziale di una tutela più incisiva nei confronti di tali lavoratori e lavoratrici è avvenuto attraverso la valorizzazione del divieto di discriminazione fondato sulla disabilità, introdotto per la prima volta nel nostro ordinamento con il d.lgs. 9 luglio 2003, n. 216, di attuazione della direttiva 2000/78/Ce del Consiglio del 27 novembre 2000 intesa a stabilire un quadro generale per la lotta alle discriminazioni fondate su una serie di caratteristiche soggettive protette, per quanto concerne l’occupazione, le condizioni di lavoro e la formazione professionale[1].
All’affermarsi della forza espansiva della disciplina antidiscriminatoria, che rappresenta certamente il livello più evoluto e completo di tutela nei confronti delle persone con disabilità[2], ha contribuito anche e soprattutto l’emersione del c.d. modello bio – psico – sociale di disabilità. Il percorso è stato reso possibile grazie alla giurisprudenza della Corte di giustizia[3] la quale, utilizzando come parametro interpretativo di riferimento la convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità del 2006[4], ratificata dalla stessa Unione europea[5], ha iniziato a considerare tale condizione come un fatto sociale, determinato dalla interazione reciproca tra individuo e ambiente, in quanto tale insuscettibile di essere ricondotto nell’ambito di stringenti categorie di tipo biomedico. Sottesa alla introduzione delle norme eurounitarie vi è, infatti, un’idea di disabilità nuova, non più identificata esclusivamente con le limitazioni individuali causate da menomazioni di carattere fisico, psichico o intellettivo, bensì fondata anche sulla condizione di marginalizzazione e svantaggio derivante dalle barriere di carattere economico, sociale e culturale incontrate dalle persone che con queste limitazioni convivono. È così che, partendo dal concetto di menomazione si è andati oltre, considerando la disabilità come il risultato dell’interazione tra limitazioni individuali e barriere ambientali e sociali che con le prime si scontrano, ostacolando la piena ed effettiva partecipazione della persona alla vita professionale su base di uguaglianza con altri lavoratori. L’emersione di un concetto ampio, mutevole ed elastico di disabilità, incentrato sulla separazione concettuale tra impairment e disability, ha così portato a ritenere che la condizione di marginalizzazione e svantaggio derivante da fattori sociali e ambientali, esterni alle differenze biologiche, ma con esse in interazione, potesse essere anche la conseguenza di una malattia, incurabile o curabile, purché di lunga durata[6].
Il tema assume particolare rilevanza perché il nostro ordinamento non prevede, salvo casi specifici[7], una disciplina dedicata alla tutela dei lavoratori affetti da tali malattie ed è proprio in ragione di questa lacuna che è sorta, sia in dottrina che in giurisprudenza, la necessità di ricondurle nell’alveo del concetto di disabilità, estendendo anche nei loro confronti diritti e tecniche di tutela di matrice antidiscriminatoria. Della questione si sono occupate in particolar modo alcune pronunce di merito aventi a oggetto il licenziamento per superamento del periodo di comporto di lavoratori e lavoratrici affetti da diverse forme di malattia – come per esempio quelle mentali[8], il diabete[9], un adenoma alla prostata[10], un’ipertensione arteriosa[11], un craniofarigioma[12], una doppia neoplasia linfoproliferativa[13] – riconoscendo in tutti i casi l’esistenza di una condizione di disabilità. Del resto, una soluzione diversa si sarebbe certamente posta in contrasto non solo con il dettato della direttiva, ma anche con la ratio della stessa volta a realizzare il principio di parità e non discriminazione a prescindere dalla causa generatrice della disabilità: il fatto che l’obiettivo della direttiva 2000/78/Ce sia stato individuato proprio nella lotta alle discriminazioni nella sfera del lavoro con l’intento di rendere effettivo il principio di parità di trattamento induce infatti a ritenere che il legislatore europeo abbia voluto concentrare la sua attenzione principalmente sulla realizzazione di tale traguardo, imponendo di non intendere in senso restrittivo la categoria delle persone protette[14].
2. Obbligo di introdurre soluzioni ragionevoli e adattamenti normativi: una rilettura dell’art. 2110 c.c.
La direttiva 2000/78/Ce, oltre ad aver consentito, grazie alla indeterminatezza dei suoi contenuti, l’emersione giurisprudenziale di un concetto ampio e dinamico di disabilità, si caratterizza anche per l’introduzione dei divieti di discriminazione diretta e indiretta ai quali è collegato un obbligo a contenuto positivo, cioè l’obbligo di adottare soluzioni ragionevoli per i disabili.
La direttiva si propone, infatti, di attuare il principio di parità di trattamento attraverso il divieto di trattare una persona in modo meno favorevole rispetto a un’altra solo a causa della sua disabilità, nonché prevedendo il divieto di introdurre disposizioni, criteri o prassi che, pur essendo apparentemente neutri, possano tuttavia determinare una posizione di particolare e ingiustificato svantaggio per le persone con disabilità. Con esclusivo riferimento alle discriminazioni indirette, l’articolo 2, lettera b, nn. i e ii, introduce una doppia possibile causa di giustificazione: la prima, di carattere generale, fa riferimento all’ipotesi in cui lo svantaggio per un determinato gruppo di soggetti sia la conseguenza dello strumento adottato per perseguire, con mezzi appropriati e necessari, una finalità legittima; la seconda, invece, concernente solo e proprio la discriminazione indiretta fondata sulla disabilità, attiene alle ipotesi in cui il datore di lavoro «sia obbligato dalla legislazione nazionale ad adottare misure adeguate, conformemente ai principi dell’art. 5, per ovviare agli svantaggi provocati».
Il baricentro della tutela a favore dei lavoratori e delle lavoratrici con disabilità è rappresentato proprio dall’art. 5 che, chiamato a svolgere un ruolo centrale nell’ambito del perseguimento del principio di uguaglianza, prescrive l’introduzione di soluzioni ragionevoli, ponendosi quale strumento volto a eliminare le barriere sociali e ambientali collegate alla disabilità e svelando come l’intenzione di combattere qualsiasi forma di discriminazione che si traduca in forme di odiosa e inaccettabile esclusione sociale possa considerarsi attuata, non solo garantendo l’uguaglianza di tutti gli individui davanti alla legge ovvero, secondo un’idea valutativa della uguaglianza, a soggetti diversi un trattamento differenziato, bensì anche attraverso la introduzione specifici strumenti di tipo preferenziale, espressione di una più evoluta e matura idea di giustizia. Per questo la norma, con l’intento di garantire il rispetto del principio della parità̀ di trattamento, dispone che debbano essere previste soluzioni ragionevoli: «ciò significa che il datore di lavoro prende i provvedimenti appropriati, in funzione delle esigenze delle situazioni concrete, per consentire ai disabili di accedere a un lavoro, di svolgerlo o di avere una promozione o perché possano ricevere una formazione, a meno che tali provvedimenti richiedano da parte del datore di lavoro un onere finanziario sproporzionato», con la precisazione che tale soluzione non possa considerarsi sproporzionata quando l’onere sia «compensato in modo sufficiente da misure esistenti nel quadro della politica dello Stato membro a favore dei disabili». Il considerando n. 20 della direttiva specifica poi, senza pretesa di esaustività, che cosa si intende per soluzioni appropriate, individuando misure sia di carattere strutturale che organizzativo come la sistemazione dei locali, l’adattamento delle attrezzature, i ritmi di lavoro, la ripartizione dei compiti o la fornitura dei mezzi di formazione o inquadramento. Allo stesso modo, per poter determinare se le misure in questione diano o meno luogo a oneri finanziari sproporzionati, il considerando n. 21 impone di tenere conto «in particolare» – e, quindi, con una elencazione che, anche in questo caso, non assume i caratteri della tassatività, – «dei costi finanziari o di altro tipo che esse comportano, delle dimensioni e delle risorse finanziarie dell’organizzazione o della impresa e della possibilità di ottenere fondi pubblici o altre sovvenzioni». A delineare i tratti distintivi delle soluzioni ragionevoli, analogamente a quanto avvenuto con riferimento alla delimitazione della nozione di disabilità di cui all’art. 1 della direttiva, è intervenuta la Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità che all’art. 2, comma 4, ha fatto riferimento a tutte «le modifiche e gli adattamenti necessari ed appropriati che non impongano un onere sproporzionato o eccessivo adottati, ove ve ne sia necessità in casi particolari, per garantire alle persone con disabilità il godimento e l’esercizio, su base di uguaglianza con gli altri, di tutti i diritti umani e delle libertà fondamentali».
La natura di tali accomodamenti, individuata in via esemplificativa dal considerando n. 20 e non aprioristicamente specificata né dalla legislazione europea né da quella nazionale di recepimento[15], consente quindi la loro declinazione in qualsiasi intervento che risulti necessario in relazione al singolo caso concreto: si tratterebbe allora di individuare non solo le misure di adattamento materiale e/o organizzativo le quali impongono al datore di lavoro di adattare l’assetto imprenditoriale esistente alla concrete esigenze del lavoratore o della lavoratrice, ma anche quelle, seppur meno intuitive, di adeguamento normativo. La componente teleologica che caratterizza la natura degli accomodamenti ragionevoli, volta a riequilibrare la condizione lavorativa di svantaggio in cui si trova il lavoratore o la lavoratrice con disabilità, insieme alla dinamicità e trasversalità della loro intrinseca natura, possono infatti anche condurre alla necessità di rileggere e integrare quelle previsioni legislative la cui interpretazione letterale darebbe altrimenti luogo a esiti discriminatori.
Ciò è quanto accadrebbe quale conseguenza della pedissequa e generalizzata applicazione dell’art. 2110 c.c. sia nei confronti dei lavoratori e delle lavoratrici con disabilità che di coloro che non si trovano in analoga situazione, senza tener conto delle assenze riconducibili alla condizione di disabilità o che siano diretta conseguenza della stessa. È per questo che l’esigenza di interpretare la disciplina in materia di comporto in una prospettiva di salvaguardia del personale che si trova in una condizione di svantaggio ha condotto in più occasioni a considerare la discriminatorietà del conteggio delle assenze ai fini della maturazione del periodo di comporto, valorizzando proprio il mancato adempimento dell’obbligo di introdurre accomodamenti ragionevoli[16].
La natura potenzialmente discriminatoria del periodo di conservazione del posto di lavoro determinato in misura uguale per tutti i lavoratori è invece certamente esclusa dalla previsione pattizia di un comporto prolungato: l’esistenza di una norma contrattuale che tuteli in modo differenziato coloro che, a causa delle proprie condizioni di salute, siano maggiormente esposti al rischio di assenze vale, infatti, di per sé a escludere la discriminazione indiretta discendente dall’applicazione dello stesso termine di comporto per i lavoratori normodotati e per quelli affetti dalle malattie specificamente individuate, dal momento che il maggiore rischio di assenze a causa di malattia invalidante gravante sui secondi è controbilanciato dal diritto a un periodo più lungo di conservazione del posto di lavoro[17].
Nei diversi casi in cui questo non sia stato previsto, nei casi cioè in cui la contrattazione collettiva non dica nulla al riguardo oppure non comprenda tutte le situazioni rientranti nella nozione di disabilità come intesa dal diritto Ue[18], tutelando solo alcuni stati morbosi invalidanti, si sono inevitabilmente aperte le porte alla tutela antidiscriminatoria, come del resto riconosciuto anche dalla stessa Corte di Giustizia[19]. Dopo aver annunciato il principio secondo cui un lavoratore disabile viene a essere, in via generale, maggiormente esposto al rischio di ammalarsi per le sue patologie invalidanti rispetto agli altri lavoratori, cumulando così maggiori giorni di assenza, i giudici di Lussemburgo hanno infatti ritenuto che trattare in modo indifferenziato le assenze dal lavoro dei dipendenti avrebbe determinato una illegittima discriminazione indiretta fondata sulla disabilità, finendo per condurre alla assimilazione di una patologia a questa legata alla nozione generale di malattia, assimilazione che, come più volte dagli stessi giudici ribadito[20], non è consentita.
3. La giurisprudenza nazionale sul licenziamento discriminatorio per superamento del periodo di comporto tra obblighi di comunicazione della condizione di disabilità e tutela oggettiva
Dalla esigenza di interpretare la disciplina in materia di comporto in una prospettiva di salvaguardia di chi si trova in una situazione di obiettivo e ineliminabile svantaggio, diverse pronunce[21], alla luce dei principi enunciati nella direttiva 2000/78/Ce, così come interpretati dalla Corte di Giustizia[22], hanno ritenuto che i datori di lavoro, prima di procedere al licenziamento per superamento del periodo di comporto del lavoratore o della lavoratrice con disabilità e in ottemperanza all’obbligo di adottare accomodamenti ragionevoli, avrebbero dovuto dare la prova di aver escluso dal computo del termine i periodi di assenza che fossero stati conseguenza immediata e diretta della patologia causa di disabilità, ovvero avrebbero dovuto provare l’impossibilità di adempiere a tale obbligo: ad esempio dimostrando che l’intero periodo di assenza imputato al lavoratore fosse indipendente dalla condizione di disabilità. In altri termini, i datori di lavoro avrebbero dovuto fornire la prova dell’esistenza della causa di giustificazione di cui all’articolo 2, paragrafo 2, lettera b, n. ii della direttiva 2000/78/Ce che, come si è già detto, prevede proprio la possibilità che un trattamento, in concreto idoneo a provocare un pregiudizio per i lavoratori disabili, sia giustificato non solo se volto al perseguimento di finalità legittime attraverso mezzi appropriati e necessari, ma anche nelle ipotesi in cui il datore di lavoro sia obbligato dalla legislazione nazionale ad adottare accomodamenti ragionevoli ex art. 5[23].
La scelta di garantire sotto questo punto di vista una tutela rafforzata nei confronti dei lavoratori e delle lavoratrici con disabilità deve ritenersi contemperata dal fatto che il datore di lavoro sappia o comunque debba sapere, secondo le regole della ordinaria diligenza, della disabilità del lavoratore o della lavoratrice[24]. È evidente, infatti, che non si possa ritenere che il datore di lavoro, incolpevolmente del tutto ignaro della disabilità del proprio dipendente, sia non di meno tenuto ad apprestare quelle soluzioni ragionevoli che, in relazione al caso concreto, consentirebbero al lavoratore con disabilità di partecipare alla vita lavorativa in condizioni di parità con gli altri lavoratori.
Questo non significa, come è stato invece sostenuto[25], introdurre indebitamente il requisito della colpevolezza quale elemento costitutivo della responsabilità da comportamento discriminatorio del datore di lavoro. Ferma restando la natura obiettiva e funzionale del divieto di discriminazione, per andare esente da responsabilità il datore di lavoro non potrà infatti provare di essere stato diligente, non gli basterà cioè dare prova di aver applicato le regole di buona condotta ragionevolmente richieste a ogni debitore nell’adempimento della obbligazione a cui è tenuto. Su di lui graverà una prova ben più onerosa, cioè quella di non aver posto in essere una discriminazione per aver adottato gli accomodamenti ragionevoli necessari in relazione al caso concreto ovvero quella della loro eccessiva onerosità che, tra l’altro, deve essere valutata oggettivamente. Si tratterebbe, quindi, di provare la interruzione del nesso causale tra condizione di disabilità e pregiudizio subito, come già accade in tutte le ipotesi di responsabilità oggettiva previste dall’ordinamento. Diverso infatti è il percorso volto all’accertamento del nesso causale tra disabilità ed effetto pregiudizievole o, meglio, quello volto a fornire la prova della inesistenza di tale nesso eziologico, da quello che impone di provare l’assenza di colpa.
Altra questione è, invece, quella relativa alla circostanza che dalle certificazioni mediche trasmesse non emerga con evidenza la natura delle patologie che giustifichino l’assenza del lavoratore o della lavoratrice[26]. Diversamente da quanto recentemente sostenuto dalla pronuncia della Corte di appello di Torino[27], il datore di lavoro a conoscenza della disabilità ha infatti l’onere di verificare autonomamente la riconducibilità delle assenze alle patologie invalidanti del ricorrente, senza che questo sia tenuto a specificarne la connessione con la sua disabilità[28]. Il fatto che nel certificato medico inviato dal lavoratore o dalla lavoratrice con disabilità non sia stata barrata la casella corrispondente alla dicitura “stato patologico sotteso o connesso alla situazione di invalidità riconosciuta” così come previsto dal decreto del Ministero della Salute del 12 aprile 2012 non può essere, infatti, eccepito dal datore di lavoro per sostenere l’impossibilità di ricondurre le assenze allo status di disabilità, tenuto conto che si tratta di un adempimento che spetta unicamente al medico compiere sulla base di valutazioni tecnico scientifiche, che questo può essere effettuato solo nelle ipotesi in cui vi sia una attestazione di invalidità da parte delle ASL competenti e che molto spesso la diagnosi è già sufficiente a ricondurre l’assenza alla condizione di disabilità, a nulla rilevando che di questa il datore di lavoro venga normalmente a conoscenza solo in sede di impugnazione di recesso. Non sembra quindi possibile ricondurre all’onere di cooperazione posto in capo al lavoratore o alla lavoratrice, secondo le regole di correttezza e buona fede, la comunicazione della connessione tra assenze e condizione di disabilità, dal momento che si tratta di un adempimento e di un accertamento che gravano su un soggetto diverso. Imporre al dipendente un tale onere significherebbe inoltre introdurre un elemento costitutivo della discriminazione non contemplato dalla normativa eurounitaria volta a reprimerla, in ogni caso ultroneo rispetto a quello, invece necessario ai fini della operatività della relativa tutela, di rendere edotto il datore di lavoro della condizione di disabilità in cui il lavoratore o la lavoratrice versa. Senza tenere conto che, in linea con il principio di parziale inversione dell’onere della prova che vige in questa materia, il lavoratore o la lavoratrice, dopo aver provato la propria condizione di disabilità, devono semplicemente allegare la sussistenza di fatti idonei a fondare la presunzione dell’esistenza di una condotta discriminatoria, determinando così in capo al datore di lavoro l’onere di fornire la prova liberatoria.
4. Alla ricerca di un bilanciamento tra opposti interessi
È evidente come l’impostazione qui seguita conduca a una compressione della libertà imprenditoriale del datore di lavoro il cui interesse a ottenere una prestazione lavorativa utile per l’impresa viene certamente posposto a quello della persona con disabilità al mantenimento di un lavoro confacente con il suo stato fisico e psichico. Tuttavia, la insuperabile necessità di soppesare gli interessi in gioco, tenuto anche conto che ai sensi del considerando n. 17 la direttiva 2000/78/Ce non prescrive il mantenimento dell’occupazione «di un individuo non competente, non capace o non disponibile ad effettuare le funzioni essenziali del lavoro in questione», impone al giudice, nella valutazione circa l’assolvimento dell’onere della prova liberatoria da parte del datore del lavoro, di verificare che il sacrificio delle situazioni giuridiche soggettive altrui risulti in ogni caso proporzionato rispetto agli obiettivi che disciplina antidiscriminatoria intende perseguire.
A questa esigenza sembra rispondere la stessa disposizione che prevede l’obbligo di introdurre accomodamenti ragionevoli per le persone con disabilità disciplinando, al contempo, i limiti entro i quali debba operare: il giudice dovrà infatti bilanciare con particolare cautela gli interessi in gioco e gli sarà possibile farlo grazie agli elementi di elasticità contenuti nelle norme da applicare, quali i requisiti della “appropriatezza”, della “necessarietà”, della “proporzionalità economica e finanziaria”[29] in questo modo allontanando, almeno in linea di principio, la possibilità che sul datore di lavoro gravino prestazioni di natura assistenziale tali da imporgli di sopportare, a tempo indefinito, le conseguenze negative che le assenze cagionano all’organizzazione aziendale.
Sono state proprio le difficoltà di addivenire a tale complesso bilanciamento a far sì che, in diverse occasioni, venissero nondimeno riproposti i tradizionali orientamenti giurisprudenziali in materia di licenziamento per superamento del periodo di comporto. Non mancano infatti pronunce che, negando che in questa materia possa operare la disciplina antidiscriminatoria e le facilitazioni processuali dalla stessa introdotte per renderne effettiva la tutela, hanno ribadito che ai fini dell’irrogazione del licenziamento rileva il solo elemento oggettivo del superamento del numero massimo di giorni di assenza per malattia o infortunio[30]. Ciò sul presupposto che la disciplina esistente già consenta al lavoratore o alla lavoratrice di curarsi senza perdere mezzi di sostentamento per un tempo ritenuto congruo, superato il quale però diventa irragionevole esigere che il datore continui a farsi carico della condizione di disabilità.
Richiamando gli orientamenti espressi dalla Suprema Corte[31], alcune pronunce hanno inoltre sottolineato come, per essere detratta dal periodo di comporto, l’assenza per malattia debba essere necessariamente riconducibile a una responsabilità del datore di lavoro, non prendendo così in considerazione la possibilità di non computare le assenze dovute alle malattie collegate con lo stato di disabilità anche nel caso in cui il personale fosse stato adibito a mansioni compatibili con il suo stato di salute. Si tratta di pronunce che, tra l’altro, hanno ritenuto di applicare le ordinarie regole probatorie in materia di inadempimento contrattuale, facendo così gravare su parte ricorrente l’onere di provare l’inadempimento da parte del datore di lavoro, sotto forma di adibizione a mansioni incompatibili con le condizioni di salute, e il nesso di casualità tra questo, il danno alla salute e le assenze dal lavoro[32].
In altri e diversi casi, invece, la discriminazione indiretta è stata esclusa sul presupposto di un già esistente appartato di tutele tale da differenziare la posizione dei lavoratori e lavoratrici con disabilità dagli altri. È tuttavia bene sottolineare come il congedo per cure ex art. 7 del d.lgs. 18 luglio 2011, n. 119, di attuazione dell’art. 23 della legge 4 novembre 2010, n. 183, recante delega al Governo per il riordino della normativa in materia di congedi, aspettative e permessi, così come i tre giorni di permesso mensile retribuito previsti dall’art. 33, comma 3, della legge 5 febbraio 1992, n. 104, la legge-quadro per l’assistenza, l’integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate, richiamati da alcune pronunce, trovano applicazione solo in presenza di invalidità accertate secondo stringenti parametri di tipo biomedico, certamente lontani dall’ampia nozione di disabilità fatta propria dalla Corte di Giustizia e posta alla base della tutela riconosciuta dalla normativa europea[33].
Roberta Bono, dottoranda di ricerca presso l’Università degli studi di Torino
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[1] Per un’analisi approfondita dei contenuti della direttiva e delle tutele da questa introdotte a favore dei lavoratori e delle lavoratrici con disabilità si veda Belavusau, Henrard 2020.
[2] Così Giubboni 2016, p. 632.
[3] Si vedano, in particolare, Corte giust., 11.04.2013, C-335/11 e C-337/1, HK Danmark v. Dansk Arbejdsgiver-forening; Corte giust., 18.12.2014, C-354/13, Fag og Arbejde (FOA) v. Kommunernes Landsforening (KL); Corte giust., 18.01.2018, C-270/16, Carlos Enrique Ruiz Conejero v. Ferroser Servicios Auxiliares SA, Ministerio Fiscal.
[4] Per un’analisi accurata della convenzione si veda Waddington, Lawson 2018; Della Fina, Cera, Palmisano 2017.
[5] L’Unione europea ha ratificato la convenzione con la decisione n. 2010/48 del Consiglio del 26 novembre 2009 dopo aver attivamente contribuito alla definizione dei suoi contenuti, come ricorda Izzi 2017, p. 499.
[6] Si veda, in particolare, Corte giust., 11.04.2013, cause riunite C-335/11 e C‑337/11, HK Danmark cit. e, sul carattere duraturo della limitazione, si vada Corte giust., 01.12. 2016, causa C-395/15, Mohamed Daouidi c. Bootes Plus SL, Fondo de Garantía Salarial, Ministerio Fiscal.
[7] Si pensi, per esempio, a quanto oggi riconosciuto dall’art. 8, comma 3, del d.lgs. n. 81/2015 che prevede il diritto dei lavoratori affetti da patologie oncologiche a ottenere la trasformazione del rapporto di lavoro da full–time in part-time. Più articolato e completo il sistema di tutele previsto dalla contrattazione collettiva la quale, negli ultimi anni, si è evoluta nel tempo introducendo via via importanti differenziazioni per situazioni in cui il lavoratore venga colpito da gravi malattie spesso croniche ed invalidanti. Sul tema si veda Aimo, Izzi 2019; Militello 2018; Stefanovichj 2013.
[8] Trib. Milano, 24.09.2018.
[9] Trib. S.M. Capua Vetere, 11.08.2019.
[10] Corte app. Torino, 26.10.2021.
[11] Corte app. Genova, 21.07.2020.
[12] Trib. Mantova, 16.07.2018.
[13] Corte app. Firenze, 26.10.2021.
[14] Di questo avviso Barbera 2007, p. 91 ss. Si vedano anche le considerazioni di Aimo 2019; Fernández Martínez, Tiraboschi 2017.
[15] L’obbligo di adottare accomodamenti ragionevoli per i disabili è stato recepito nel nostro ordinamento solo con il d.l. n. 76/2013 che ha introdotto nell’art. 3, d.lgs. n. 216/2003, il comma 3-bis, a seguito della condanna dell’Italia da parte della Corte di giustizia (C. giust., 4.07.2013, C-312/11, Commissione Europea v. Repubblica italiana).
[16] In dottrina si veda De Mozzi 2020.
[17] Su tale esclusione si è recentemente espressa Corte app. Torino, 26.10.2021. La pronuncia, anche se per alcuni aspetti discutibile, arriva infatti a negare la esistenza di una discriminazione indiretta in ragione della previsione nel Ccnl di settore di un periodo più lungo di conservazione del posto di lavoro in ipotesi particolari, tutelando quindi in modo differenziato i lavoratori che, a causa delle loro condizioni di salute, siano maggiormente esposti al rischio di assenze prolungate. Sul punto si veda anche la coeva Corte app. Firenze, 26.10.2021 la quale, non ravvisando all’interno del Ccnl di riferimento una norma in materia di comporto volta a differenziare la condizione di chi si assenta dal lavoro in ragione di una malattia collegata alla disabilità rispetto a quella degli altri lavoratori e lavoratrici, ha riscontrato l’esistenza di una discriminazione indiretta negando, tra l’altro, che la possibilità di fruire di un periodo di aspettativa non retribuita, ulteriore rispetto al periodo di comporto, potesse incidere sulla sussistenza di tale discriminazione. La previsione del Ccnl di poter godere, oltre ai mesi di comporto, di un’ulteriore aspettativa, anche prorogabile, si applica infatti indistintamente a tutti i lavoratori e a tutte le lavoratrici, facendo così permanere una discriminazione a carico di coloro che versano in una condizione di disabilità, che sarebbero pregiudicati economicamente rispetto alla generalità dei dipendenti.
[18] Nel caso sottoposto alla attenzione del Trib. Verona, 21.03.2021 il Ccnl Agenzie Somministrazione di lavoro applicato ratione temporis aveva previsto permessi per cura ai soggetti portatori di handicap ex art. 3, comma 3 della legge n. 104/1992, così escludendo i soggetti non in condizione di gravità, ma comunque ascrivibili alla categoria protetta contro le discriminazioni nel rapporto di lavoro dalla normativa europea e nazionale. Per questo motivo, il giudice ha dichiarato che l’applicazione generalizzata della disciplina dettata dal contratto collettivo, senza previsione di accorgimenti a tutela delle persone con disabilità, crea una discriminazione indiretta sanzionata dalla normativa eurounitaria.
[19] Corte giust., 18.01.2018, causa C-270/16, Carlos Enrique Ruiz Conejero c. Ferroser Servicios Auxiliares SA, Ministerio Fiscal.
[20] Sul punto si veda, in particolare, Corte giust., 11.07.2006, causa C-13/05, Sonia Chacón Navas c. Eurest Colectividades SA e Corte giust., 11.04.2013, cause riunite C-335/11 e C‑337/11, HK Danmark, cit.
[21] Si fa riferimento a Trib. Milano, 28.10.2016; Trib. Milano, 06.04.2018; Trib. Milano, 12.06.2019; Trib. Verona, 21.03.2021; Corte app. Genova, 09.07.2021.
[22] In particolare, sul licenziamento per superamento del periodo di comporto del lavoratore con disabilità si veda Corte giust., 18.01.2018, causa C-270/16, Carlos Enrique Ruiz Conejero, cit.
[23] Secondo l’impostazione seguita da Barbera 2009, p. 105 le giustificazioni ivi previste non dovrebbero infatti escludersi a vicenda, ma il datore di lavoro sarebbe gravato dall’onere di provare la ricorrenza di entrambe le cause di esimenti. Contra Loy 2009, p. 45, il quale, attenendosi al tenore letterale della norma, ritiene invece che una lettura cumulativa delle cause di giustificazione non sia possibile, anche a costo di «svuotare di significato, nel caso della discriminazione per disabilità, il criterio di giustificazione di carattere generale».
[24] Sul punto si veda infatti Trib. Como, 17.09.2020 il quale esclude che si possa fare ricorso all’istituto del licenziamento discriminatorio nel caso in cui il datore di lavoro non sia a conoscenza della disabilità del proprio dipendente.
[25] In particolare, si richiama qui la pronuncia del Trib. Milano, 12.06.2019.
[26] Distingue chiaramente le due ipotesi Corte app. Firenze, 26.10.2021 evidenziando come non debba essere confusa la mancata conoscenza della condizione di disabilità – nel caso di specie perfettamente nota alla società datrice di lavoro in quanto certificata dal medico competente e dalla Commissione ASL – con l’ignoranza dei motivi che sorreggono le singole assenze conteggiate ai fini del comporto.
[27] Si veda Corte app. Torino, 26.10.2021 secondo la quale occorrerebbe necessariamente, al fine di rendere esigibile l’obbligo di introdurre accomodamenti ragionevoli sotto forma di scomputo dal periodo di comporto dei periodi di assenze legati alla disabilità, «imporre al dipendente l’onere di comunicare quali assenze siano riconducibili alla malattia invalidante stante l’oggettiva impossibilità per il datore di lavoro di controllare detto nesso causale non essendo a conoscenza della diagnosi dei certificati di malattia di cui normalmente viene a conoscenza solo in sede di impugnazione del recesso».
[28] Così, infatti, Trib. Verona, 21.03.2021 che, sul presupposto della operatività oggettiva della disciplina antidiscriminatoria, ha ritenuto non condivisibili le argomentazioni di parte convenuta che aveva osservato come le certificazioni mediche trasmesse dal lavoratore non recavano l’evidenza della natura della patologia che giustificava le assenze del lavoratore e che pertanto il datore di lavoro non era in grado di verificare la riconducibilità dell’assenza alle patologie invalidanti.
[29] Si veda, sul punto, quanto statuito dalla Corte app. Genova 09.07.2021 che, con riferimento alla fattispecie concreta, ha escluso la eccessiva onerosità in capo al datore di lavoro dal momento che l’art. 10 della legge n. 68/1999 consente di richiedere, in caso di aggravamento della patologia, l’accertamento della compatibilità delle mansioni affidate con lo stato di salute del lavoratore o lavoratrice, e in caso di accertata incompatibilità è possibile sospendere il/la dipendente senza retribuzione per tutto il tempo in cui tale incompatibilità persista. Inoltre, il Ccnl ANSTE applicabile, nel disciplinare il trattamento economico del lavoratore assente per malattia, prevede regole precise che contengono l’onere economico in capo all’azienda per determinati limiti temporali, superati i quali il lavoratore malato conserva solo il diritto a mantenere il posto di lavoro senza retribuzione. Inoltre, si fa riferimento a una indennità previdenziale di malattia a carico dell’Inps che, nel settore del terziario e dei servizi copre i giorni di assenza giustificati dai certificati di malattia per un periodo massimo di 180 giorni all’anno.
[30] Così, per esempio, Trib. Como, 17.09.2020 il quale, richiamando la giurisprudenza della Corte di Cassazione, in particolare la pronuncia, 24.10.2016, n. 21377, ha stabilito che «l’effettivo superamento del periodo di comporto esclude poi la possibilità di configurare un asserito intento discriminatorio, considerato che la giurisprudenza di questa Corte richiede allo scopo che esso costituisca il motivo unico determinante l’individuazione del lavoratore appartenente alla categoria protetta (ex plurimis: Cass. n. 3986/2015; Cass. n. 17087/11; Cass. n. 6282/11; Cass. n. 16155/09) e che, in ogni caso, di discriminazione può parlarsi solo quanto si configuri un trattamento deteriore riservato al lavoratore quale effetto della sua appartenenza alla categoria protetta (Cass. n. 6575 del 05/04/2016) mentre nella fattispecie qualunque lavoratore sarebbe stato licenziato nella medesima situazione, che costituisce una condizione legittimante di natura generale (nello stesso senso, seppure in fattispecie diversa, Cass. n. 15315 del 04/12/2001, che ha affermato che nell’ipotesi di avviamento di un invalido al lavoro ai sensi della legge n. 482 del 1968, con contratto stipulato con patto di prova, l’invalido che deduca l’intento discriminatorio – in quanto basato sulla incompatibilità della prestazione richiesta con l’invalidità – del recesso del datore di lavoro al termine del periodo di prova, è tenuto a fornire tempestivamente elementi di obiettivo riscontro, che consentano la concreta verifica della circostanza denunciata)».
[31] In particolare, quanto statuito dalla Corte Cass. 27.06.2017, n. 15972 al cui punto 19 statuisce che «secondo il consolidato orientamento di questa Corte, al quale va data continuità, le assenze del lavoratore dovute ad infortunio sul lavoro o a malattia professionale sono riconducibili, in linea di principio, all’ampia e generale nozione di infortunio o malattia contenuta nell’art. 2110 c.c. , comprensiva anche di dette specifiche categorie di impedimenti dovuti a cause di lavoro, e sono, pertanto, normalmente computabili nel periodo di conservazione del posto di lavoro previsto nel citato art. 2110, la cui determinazione è da questa norma rimessa alla legge, alle norme collettive, all’uso o all’equità. È stato precisato che non è sufficiente, perché l’assenza per malattia possa essere detratta dal periodo di comporto, che si tratti di malattia di origine professionale, meramente connessa cioè alla prestazione lavorativa, ma è necessario che in relazione a tale malattia e alla sua genesi sussista una responsabilità del datore di lavoro ai sensi dell’art. 2087 c.c. (Cass. 24028/2016, 26037/2014, 7037/2011, 5413/2004, 3351/1996)».
[32] Si veda Corte Cass. 12.04.201, n. 9395secondo la quale il lavoratore o la lavoratrice ricorrente sarebbe «gravato dell’onere di provare gli elementi oggettivi della fattispecie, sulla quale si fonda la responsabilità contrattuale del datore di lavoro, dimostrandone l’inadempimento, nonché il nesso di causalità tra l’inadempimento stesso, il danno alla salute e le assenze dal lavoro che ne conseguano».
[33] Di contrario avviso, invece, Corte app. di Torino che richiama le norme citate, insieme a quelle contenute nel Ccnl applicabile, al fine di negare l’esistenza di una discriminazione indiretta in un caso di licenziamento per superamento del periodo di comporto per assenze legate alla condizione di disabilità.