Il contributo richiama le principali questioni aperte quanto all’applicazione del principio paritario in materia di comporto dei lavoratori disabili e dà conto della soluzione offerta ad alcune di queste da Cass. 9095/2023.
The case note recalls the main open questions concerning the application of the equal treatment principle to disabled workers and gives an account of the solution offered to some of them by Court of Cassation 9095/2023.
di Elisabetta Tarquini
La discriminazione per ragioni di handicap si conferma l’ambito in cui la piena attuazione del principio paritario ha più inciso sulla disciplina limitativa dei licenziamenti, evidentemente in ragione della previsione, contenuta nella direttiva 2000/78, dell’obbligo datoriale di adottare “accomodamenti ragionevoli,” idonei a consentire al lavoratore o alla lavoratrice disabile di svolgere la sua prestazione in condizioni di parità e sicurezza
Il tema ha avuto uno spazio significativo nella giurisprudenza di merito e poi di legittimità innanzi tutto a proposito del licenziamento per impossibilità sopravvenuta, con esiti controversi, segnati da ultimo dall’ampia motivazione della pronuncia 6497/2021 della Corte di Cassazione[1].
Ma le decisioni in questa materia della Corte di Giustizia hanno inciso molto, e in modo molto complesso, anche sul licenziamento per superamento del comporto quando le assenze riguardino lavoratori disabili e siano riferibili alla patologia da cui dipende la disabilità.
Con la sentenza 18.1.2018, resa nella causa C-270/16, infatti, Corte di Giustizia ha affermato che un lavoratore disabile è, in linea di principio, maggiormente esposto al rischio di vedersi applicare le disposizioni sul comporto rispetto a un lavoratore non disabile, così che le disposizioni come quella spagnola, che era soggetta all’esame della Corte e che prevede la risoluzione del rapporto in caso di superamento di un certo numero di assenze definite intermittenti, sono idonee a svantaggiare i lavoratori disabili e, quindi, a comportare una disparità di trattamento indirettamente basata sulla disabilità, così che è indispensabile per l’interprete valutare se una simile disparità si dia per una finalità legittima e questa sia perseguita con mezzi appropriati e necessari.
Sono questioni che evidentemente si pongono anche per la disciplina nazionale sul comporto e infatti se le è poste la giurisprudenza di merito, che, almeno nel suo orientamento maggioritario, ha assunto che la previsione di un termine unico di comporto applicabile anche ai lavoratori disabili e in relazione alle assenze connesse alla disabilità costituisce discriminazione indiretta[2]. Perché se la finalità delle disposizioni in materia di comporto (contemperare il diritto del lavoratore a conservare il posto di lavoro in caso di malattia con l’interesse, anche di certezza, proprio dell’organizzazione aziendale) è senz’altro legittima, il mezzo praticato non risulta appropriato in quanto oblitera del tutto la differenza, quanto al rischio di incorrere in assenze per malattia, tra lavoratori disabili e non.
Anche assunto come ragionevolmente certo, almeno allo stato, un simile dato, le questioni aperte restano tuttavia molte.
Infatti: riconosciuto come discriminatorio un termine unico di comporto e affermata quindi la necessità che, rispetto alla regola apparentemente neutra, si appresti un accomodamento ragionevole in favore dei lavoratori disabili, in cosa questo accomodamento dovrebbe consistere: nello scomputo delle assenze riferibili alla disabilità, con l’effetto di massimo adattamento alla situazione concreta (e la Corte di Giustizia ha più volte affermato che l’accomodamento deve tenere conto di tutte condizioni di fatto del caso concreto), ma di minima considerazione delle esigenze di certezza cui pure le disposizioni sul comporto sono finalizzate? Oppure costituisce accomodamento ragionevole l’allungamento del comporto, soluzione questa che, per contro salvaguarda le esigenze di certezza a scapito della concretezza delle singole fattispecie?
E nel caso in cui si propenda per la prima soluzione, lo scomputo delle assenze potrà darsi senza alcun limite? Questione questa che deve di necessità esaminarsi anche alla luce del diciassettesimo considerando della Direttiva 2000/78, che riconosce il diritto del datore di lavoro ad attendersi comunque dalla prestazione del lavoratore un risultato utile, così che in ogni caso la neutralizzazione delle assenze legate alla malattia dovrebbe incontrare il limite dell’accertata permanenza della condizione di inabilità al lavoro. E del resto la neutralizzazione di tutte le assenze non è ignota nell’ordinamento interno, in quanto molti contratti collettivi la prevedono in via generale per i casi di infortunio.
Infine, questione anche questa niente affatto irrilevante, per l’operatività del divieto è necessaria almeno la conoscibilità da parte del datore di lavoro della causa dell’assenza? Ed eventualmente in quale momento dovrebbe darsi una tale condizione? Al momento delle singole assenze? O a quello dell’intimazione del licenziamento?
Questione anche questa di non facile soluzione, in quanto ritenere necessariamente costitutiva della condotta discriminatoria (almeno) la conoscibilità da parte del datore di lavoro della causa dell’assenza potrebbe in effetto reintrodurre nella nozione di discriminazione un elemento soggettivo che le è invece estraneo. In contrario tuttavia non può trascurarsi come il Comitato per i diritti delle persone con disabilità[3], nelle sue linee guida, affermi essere connaturato alla nozione di accomodamento ragionevole che l’obbligato entri “in dialogo con l’individuo con disabilità”[4], una condizione che, applicata alle questioni legate al comporto, che qui interessano, dovrebbe quindi presupporre almeno la conoscibilità della causa dell’assenza[5].
D’altro canto l’esigibilità della condotta lecita potrebbe essere salvaguardata limitando l’obbligo di cooperazione del lavoratore alla fase successiva al recesso, come già oggi accade per il licenziamento della lavoratrice madre. O ancora potrebbe ritenersi che l’obbligo di adottare accomodamenti ragionevoli in confronto dei lavoratori disabili imponga al datore di lavoro oneri di iniziativa e informazione (per esempio sull’approssimarsi del comporto) altrimenti sempre esclusi dalla giurisprudenza.
A questioni come queste era chiamata a dare risposta la Corte di Cassazione nel giudizio conclusosi con la sentenza 9095/2023, pubblicata il 31.3.2023.
In quel giudizio infatti era impugnato un licenziamento assunto come discriminatorio per ragione di handicap, in quanto intimato in esito al superamento del periodo di comporto contrattuale da parte di un lavoratore, portatore di un grave stato patologico, qualificabile come disabilità, trascurando di distinguere assenze per malattia ed assenze per patologie correlate alla disabilità.
Il giudice di legittimità, dopo avere richiamato la disciplina dell’Unione in materia di discriminazione per disabilità e in specie i principi espressi dalla CGUE nella sentenza del 18/1/2018 in causa C-270/16, ha innanzi tutto avvalorato l’indirizzo di merito secondo cui l’applicazione anche al lavoratore disabile dell’ordinario termine contrattuale di comporto costituisce discriminazione indiretta. Secondo la Corte infatti “il rischio aggiuntivo di essere assente dal lavoro per malattia di un lavoratore disabile deve essere tenuto in conto nell’assetto dei rispettivi diritti e obblighi in materia, con la conseguenza che la sua obliterazione in concreto, mediante applicazione del periodo di comporto breve come per i lavoratori non disabili, costituisce condotta datoriale indirettamente discriminatoria e perciò vietata”.
Tuttavia, si legge ancora nella sentenza impugnata, “questo non significa che un limite massimo in termini di giorni di assenza per malattia del lavoratore disabile non possa o non debba essere fissato”, dal legislatore o, per quanto di competenza, delle parti sociali, anche al fine di contrastare fenomeni di assenteismo dovuto ad eccessiva morbilità. Una tale legittima finalità deve essere però “attuata con mezzi appropriati e necessari, e quindi proporzionati, mentre la mancata considerazione dei rischi di maggiore morbilità dei lavoratori disabili, proprio in conseguenza della disabilità, trasmuta il criterio apparentemente neutro del computo del periodo di comporto breve in una prassi discriminatoria nei confronti del particolare gruppo sociale protetto in quanto in posizione di particolare svantaggio”. Così che “la necessaria considerazione dell’interesse protetto dei lavoratori disabili, in bilanciamento con legittima finalità di politica occupazionale, postula, …, l’applicazione del principio dell’individuazione di soluzioni ragionevoli per assicurare il principio di parità di trattamento dei disabili, garantito dall’art. 5 della direttiva 2000/78/CE (ovvero degli accomodamenti ragionevoli di cui alla Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità, alla cui luce vanno interpretate le direttive normative antidiscriminatorie UE)”.
La Corte affronta infine il tema della conoscibilità da parte del datore di lavoro delle cause dell’assenza, in una fattispecie nella quale la difesa dell’azienda aveva affermato di avere informato il lavoratore dell’approssimarsi del termine del comporto, invitandolo a dedurre in merito, senza avere risposta.
Sul punto la decisione riafferma la natura oggettiva dei divieti di discriminazione e nega che sia di conseguenza decisivo l’assunto del datore di lavoro di non essere stato messo a conoscenza del motivo delle assenze del lavoratore, in quanto i certificati medici inviatigli non indicavano la specifica malattia a causa dell’assenza. Non può tuttavia trascurarsi come, respingendo il motivo di impugnazione dedotto sul punto dall’azienda, la Corte abbia ritenuto correttamente motivata la sentenza impugnata nella parte in cui aveva affermato, anche sulla base di elementi presuntivi, essere stata comunque conosciuta dal datore di lavoro la condizione di disabilità del lavoratore.
L’intervento del giudice di legittimità avvalora quindi, allo stato definitivamente, l’affermazione della giurisprudenza di merito circa la natura di doveroso accomodamento ragionevole di un termine di comporto differenziato per i lavoratori disabili, ritenendo tuttavia ammissibile che un tale termine sia individuato anche in via generale dalla contrattazione collettiva (quindi verosimilmente anche attraverso la previsione di termini diversi e più estesi nei casi di assenze dovute a patologie qualificabili come disabilità).
Resta forse non del tutto appagante la soluzione raggiunta in ordine al tema della conoscibilità delle ragioni delle assenze da parte del datore di lavoro, in quanto il solo richiamo all’irrilevanza dell’intento soggettivo di discriminare non pare confrontarsi con le questioni legate, in casi come quelli che interessano, alla stessa esigibilità oggettiva del comportamento doveroso, attesa la natura necessariamente “dialogica” dell’accomodamento ragionevole.
Elisabetta Tarquini, Consigliera presso la Corte d’Appello di Firenze
[1] Che può leggersi qui: https://www.italianequalitynetwork.it/archivio/?id=36, con nota di chi scrive.
[2] Sugli orientamenti di merito cfr. su questo sito la nota di O. Bonardi a Trib. Lecco, 26.6.2022 https://www.italianequalitynetwork.it/ancora-sul-licenziamento-per-superamento-del-periodo-di-comporto-del-lavoratore-disabile/
[3] Organismo istituito dall’art. 34 della Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità del 2006 (cui rimanda la nozione eurounitaria di disabilità; cfr. CGUE 11.4.2013, HK Danmark, C-335/2011), con la funzione di monitorare l’attuazione della convenzione stessa da parte degli Stati contraenti e di formulare linee guida e raccomandazioni.
[4] Commitee on the rights of persons with disabilities, General comment No. 6 2018, 6.
[5] Che è quanto può desumersi dalle citate linee guide, secondo cui “l’obbligo di fornire una sistemazione ragionevole non è limitato a situazioni in cui la persona con disabilità ha chiesto un accomodamento o in cui si può dimostrare che il presunto titolare dell’obbligo era effettivamente a conoscenza del fatto che la persona in questione aveva una disabilità. Dovrebbe inoltre applicarsi a situazioni in cui un potenziale portatore di doveri dovrebbe aver compreso che la persona in questione aveva una disabilità che poteva richiedere sistemazioni per superare gli ostacoli all’esercizio del diritto” (così Commitee on the rights of persons with disabilities, General comment No. 6 2018, 7).