Federica Cusa
Su un punto in particolare aveva suscitato perplessità la prima pronuncia della Cassazione in tema di discriminazione per disabilità e superamento del periodo di comporto (Cass. 31.3.2023 n. 9095): il tema della conoscenza da parte del datore di lavoro della condizione di disabile (indispensabile per disporre un prolungamento del periodo di comporto e a maggior ragione per adottare più complessi accomodamenti ragionevoli) era stato risolto in modo che a qualche commentatore era sembrato troppo sbrigativo; cioè riaffermando il (pur ineccepibile) principio secondo il quale la discriminazione ha carattere oggettivo e dunque deve prescindere dalla conoscenza dello stato di disabilità, quasi in analogia con il divieto di licenziamento nel periodo di gravidanza che, come noto, prescinde dalla conoscenza della gravidanza da parte del datore di lavoro.
Ora la Corte – con una sentenza da leggere in parallelo alla n. 14402 del medesimo relatore e depositata nella medesima data – torna sul tema con qualche importante precisazione, senza richiamare – prima di affrontare quello che si prospetta come il nodo centrale per l’evoluzione futura della materia – i principi già affermati nella citata sentenza n.9095 e nella sentenza “gemella” n. 35747/23, che sono in realtà più ampiamente richiamati non nella sentenza in commento ma nella coeva sentenza n.14402 citata (e sui quali vedi in questo sito Tarquini, Un uguale periodo di comporto costituisce discriminazione per disabilità, LINK)
Il primo riguarda la definizione “relazionale” di disabilità propria della Convenzione ONU 13.12.2006 sui diritti delle persone con disabilità, resa evidente dall’inciso “in interazione con barriere di diversa natura” ripresa anche dalla Corte di Giustizia nell’interpretazione della direttiva 2000/78/CE, secondo la quale la disabilità è il risultato dell’interazione tra persone con menomazioni e barriere comportamentali ed ambientali, che impediscono la loro piena ed effettiva partecipazione alla società su base di uguaglianza con gli altri.
Dunque, possono essere le “barriere di diversa natura” a produrre disabilità, anche indipendentemente dalla entità della menomazione fisica o psichica, con la conseguente necessità di valutare, caso per caso, la dimensione soggettiva della disabilità (non della discriminazione).
Il secondo principio (ormai altrettanto pacifico) è quello della qualificazione come discriminazione indiretta della applicazione di un periodo di comporto unico sia per i lavoratori disabili sia per i lavoratori non disabili (come appunto già affermato dalle due sentenze citate 9095 e 35747 del 2023). Nuova è però l’affermazione, contenuta appunto nella 14402, che viene tratta dal coordinamento con il principio precedente: e cioè che proprio la dimensione soggettiva della disabilità fa si che “anche la patologia non grave, ma in nesso causale diretto e immediato con la disabilità, implica per il lavoratore disabile la particolare protezione”; e che pertanto la mera differenziazione prevista dal contratto collettivo tra comporto ordinario e comporto per “ipotesi di assenze determinate da patologie gravi” non soddisfa l’esigenza di evitare la discriminazione indiretta. Occorre invece che “la contrattazione colletittva in modo esplicito disciplini la questione del comporto per i lavoratori disabili avendo riguardo alla condizione soggettiva”: affermazione che dovrebbe chiudere la strada all’ipotesi di venire a capo della questione accontentandosi delle numerose norme contrattuali che prevedono un comporto breve e un comporto lungo a seconda della patologia, senza tuttavia fare riferimento espresso alla condizione di disabilità.
Il terzo punto rilevante è l’attenzione posta al bilanciamento tra “l’interesse protetto del lavoratore disabile con la legittima finalità di politica occupazionale” disattendendo la tesi dei giudici di primo e secondo grado secondo i quali la previsione di un periodo di comporto comunque ampio (12 mesi su 24 con possibilità di prolungamento di ulteriori 12 mesi non retribuiti per i “malattia particolarmente grave”) era idonea garantire la tutela contro la discriminazione. Per la Corte invece il rischio aggiuntivo di essere assente dal lavoro per malattia che corre il lavoratore disabile deve essere sempre tenuto in conto nell’assetto dei rispettivi diritti ed obblighi in materia di licenziamento, con la conseguenza che la sua obliterazione in concreto – mediante l’applicazione di un periodo di comporto unico, lungo o breve che sia – costituisce condotta datoriale indirettamente discriminatoria e per questo vietata. Il bilanciamento diviene così espressione del principio di uguaglianza sostanziale, che impone di trattare in modo differenziato situazioni diverse.
Poste dunque, dalla sentenza 14402 questi punti fermi, la n. 14316 li da per impliciti, e affronta il punto cruciale indicato all’inizio: formalmente, il principio ribadito è ancora quello della sentenza 9095 cit. cioè quello, incontestabile , del carattere oggettivo della discriminazione, che prescinde da qualsiasi considerazione dell’atteggiamento soggettivo di discriminazione: principio che tuttavia viene parzialmente corretto dal rilievo che “non può negarsi che possa assumere rilevanza la conoscenza o la conoscibilità di un fattore discriminatorio, ai fini dell’accertamento di una esimenti per il datore di lavoro al fine di rendere praticabili gli accomodamenti ragionevoli”. Il criteri individuato è quello della “conoscibilità secondo l’ordinaria diligenza” e dunque nell’obbligo per il datore di lavoro di acquisire informazioni – “cui non può corrispondere un comportamento ostruzionistico del lavoratore”- circa l’eventuale collegamento tra ragione della assenza e disabilità, al fine di individuare gli eventuali accomodamenti ragionevoli: dunque il datore di lavoro ha l’onere di chiedere e verificare e il lavoratore ha l’obbligo di cooperare fornendo le informazioni richieste (obbligo che lascia aperto il tema della tutela della privacy del dipendente).
Di sicuro rilievo è la base giuridica che la Corte individua per tale onere di interlocuzione, individuata in primo luogo (e in conformità a una consolidato orientamento dottrinale) nell’art. 6 del General Comment del Comitato ONU per i diritti delle persone con disabilità; in secondo luogo in un passaggio del conclusioni dell’Avvocato Generale nella causa Ruiz Conejero C-270/16; in terzo luogo nell’art. 17 del dlgs 3.5.2024 n. 62 – pur non applicabile alla fattispecie – che fa riferimento alla facoltà della persona con disabilità di richiedere “con apposita istanza scritta” l’adozione di un accomodamento ragionevole, con conseguente diritto di partecipare alla sua individuazione.
La questione della conoscenza viene dunque introdotta – e il punto è decisivo – non al fine di tutelare la buona fede dell’imprenditore, (e dunque non perché si venga meno al principio di oggettività della discriminazione) ma proprio per il carattere assolutamene vincolante dell’obbligo di accomodamenti ragionevoli, il cui rifiuto – viene detto espressamente nelal senteza – costituisce discriminazione.
Più dubbio pare invece il passaggio ove si fa riferimento a una facoltà del datore di lavoro di fornire la prova liberatoria circa la ragionevolezza degli accomodamenti ragionevoli; affermazione che sembra confondere la prova della causa di giustificazione delle discriminazioni indirette (che segue il consueto parametro delle finalità legittima perseguita con mezzi appropriati e necessari) e la prova inerente l’accomodamento ragionevole, rispetto al quale l’unica causa di esclusione consentita dall’art. 5 direttiva 2000/78 è quella dell’onere sproporzionato, sicchè solo su quello si può appuntare l’onere probatorio a carico del datore di lavoro.
In ogni caso, la strada di un dialogo per venire a capo della difficile problematica, aperta dalle due sentenze del 22.5.2024, è ormai tracciata; ed è un dialogo la cui “prima parola” spetta al datore di lavoro e che in nessun caso potrà essere circoscritto all’obbligo di tener conto di ciò che già per legge deve essere conosciuto, ad es. – è l’esempio fatto dalla Corte – mediante la dovuta sorveglianza sanitaria ex art. 41 dlgs. n. 81/2008. E’ invece un dialogo molto più intenso che – può agevolmente concludersi – deve sempre essere attivato, in applicazione del principio di ordinaria diligenza, per il solo fatto di una assenza prolungata, che, pur non conosciuta nella sua diagnosi, deve inevitabilmente porre l’interrogativo di una possibile connessione con situazioni di invalidità.
Federica Cusa