È passato appena un anno dall’intervento della Cassazione che ha segnato una netta presa di posizione nella querelle sviluppatasi tra i giudici di merito a proposito del licenziamento del disabile per superamento del comporto rispetto alla contrattazione collettiva che non preveda periodi di comporti differenziati tra lavoratori abili e disabili o che non stabilisca lo scomputo dal comporto delle assenze dovute alla condizione di disabilità. I giudici di legittimità, con la sentenza n. 9095 del 31 marzo 2023, hanno interpretato le clausole collettive di siffatta portata come discriminatorie in via indiretta, perché non prendono in considerazione «la maggiore vulnerabilità relativa dei lavoratori disabili ai fini del superamento del periodo di tempo rilevante».
Con la sentenza n. 14402 del 23 maggio 2024, la Corte di Cassazione prosegue e sviluppa l’interpretazione delle normative contrattuali nella prospettiva di una adeguata tutela della condizione soggettiva di disabilità. Questa volta il caso riguardava un dipendente invalido al 50% a cui era stato intimato il licenziamento per superamento del comporto di cui all’art. 32 Ccnl Gas-Acqua che, pur non prevedendo un termine diverso per i lavoratori portatori di disabilità, stabilisce che «ove il superamento del periodo di conservazione del posto sia avvenuto a seguito di uno stato di malattia particolarmente grave, destinato a perdurare dopo il termine, il lavoratore può usufruire, previa richiesta e idonea certificazione scritta da presentare prima della scadenza del termine, di un periodo di aspettativa di durata non superiore a mesi 12 durante il quale non decorrono retribuzione e anzianità».
La Corte ribalta la tesi del Tribunale di Reggio Emilia e della Corte di Appello di Bologna, che avevano ritenuto il licenziamento legittimo e l’art. 32 Ccnl Gas-Acqua non discriminatorio. Il punto di partenza è proprio il principio affermato nella sentenza n. 9095/2023, secondo cui «il rischio aggiuntivo di essere assente dal lavoro per malattia di un lavoratore disabile deve essere tenuto in conto nell’assetto dei rispettivi diritti ed obblighi in materia». Da tale premessa, i giudici deducono che la discriminatorietà della previsione collettiva non può essere affatto esclusa da una disciplina che, come nel caso di specie, valorizza «unicamente il profilo oggettivo della astratta gravità della patologia». Al contrario, è proprio la mancata considerazione dell’aspetto soggettivo della disabilità che rischia di ingenerare ingiustificate disparità di trattamento, se anche una patologia non grave, ma direttamente ed immediatamente collegata alla disabilità, resta fuori dal calcolo di un comporto differenziato. In altri termini, non basta che la disciplina collettiva dia rilievo alle sole assenze determinate da patologie gravi; la disposizione contrattuale determina così una discriminazione indiretta nei confronti dei lavoratori con disabilità.
La sentenza si sofferma altresì su un secondo aspetto – già emerso, ma con un riferimento assai stringato, nella richiamata decisione n. 9095/2023 – circa la conoscenza o la conoscibilità della disabilità da parte del datore di lavoro, quale possibile esimente rispetto agli accomodamenti ragionevoli da predisporre ai sensi dell’art. 3, comma 3-bis, d. lgs. n. 216 del 2003. La Cassazione conferma, dunque, diversamente da quanto prospettato in alcuni provvedimenti di merito, che la conoscenza dello stato di disabilità o la possibilità di conoscerlo secondo l’ordinaria diligenza è momento indispensabile ai fini della valutazione giudiziale della complessa fattispecie del licenziamento del lavoratore con disabilità. Ai fini di tale valutazione, deve pertanto individuarsi a carico del datore di lavoro, prima di adottare il provvedimento di licenziamento, «un onere di acquisire informazioni – cui non può corrispondere un comportamento ostruzionistico del lavoratore – circa la eventualità che le assenze siano connesse ad uno stato di disabilità e per valutare, quindi, gli elementi utili al fine di individuare eventuali accorgimenti ragionevoli onde evitare il recesso dal rapporto».
Si tratta di un approdo largamente condivisibile, perché se da un lato sollecita ulteriormente l’autonomia collettiva a ripensare il punto di equilibrio tra tutela occupazionale e interesse all’efficienza d’impresa sotteso alla disciplina della durata (spesso indifferenziata) del comporto, dall’altro pone le basi, nell’obbligo della interlocuzione e collaborazione tra datore e lavoratore dipendente flessibile, per una soluzione flessibile e case-by-case nella gestione degli accomodamenti ragionevoli.
L’ultima parola spetterà comunque alla Corte di Giustizia, cui a gennaio di quest’anno, il Tribunale di Ravenna ha rimesso alcune delle questioni qui decise per l’interpretazione della direttiva CE n.78/2000 rispetto al quadro regolativo nazionale.
Giuseppe Antonio Recchia