La vicenda che porta nuovamente all’attenzione della Cassazione – dopo l’ordinanza di rinvio pregiudiziale 1788/24 – la nozione di discriminazione associata, riguarda una donna lavoratrice, caregiver del marito portatore di handicap, la quale svolge la propria prestazione di impiegata con mansioni di addetta alla contabilità del settore amministrativo presso una delle filiali della società convenuta.
A causa dell’andamento negativo della filiale dove questa lavora, le viene chiesto di trasferirsi presso un’altra sede operativa distante dalla residenza del coniuge, e questo nonostante l’esistenza di altre due filiali che insistono in luoghi più prossimi all’effettivo domicilio e residenza del disabile, indicate e proposte dalla lavoratrice.
La donna rifiuta la proposta di trasferimento e per questo viene licenziata per giustificato motivo oggettivo.
Nel giudizio di legittimità si sovrappone il tema dell’obbligo di repêchage riferito a una “ordinaria” vicenda del giustificato motivo oggettivo e il tema della discriminazione per non avere la Corte di merito adeguatamente considerato la specifica tutela garantita alla lavoratrice sia dalle norme antidiscriminatorie, sia dalla L.104/1992.
Il primo profilo (quello delle norme antidiscriminatorie) è quello che maggiormente rileva perché la Corte è chiamata espressamente a valutare se l’interpretazione data dalla CGUE Corte di giustizia (così Corte Giustizia UE, grande sezione, 17.7.2008, n. 303). ) dell’art.1 e 2, n.1 e 2, lett. a) della direttiva 2000/78/CE, debbano ritenersi pienamente recepiti nel nostro ordinamento e dunque sed il divieto di discriminazione ivi previsto debba ritenersi esteso alle sole persone che siano esse stesse disabili.
La risposta è ovviamente positiva, sicché è confermato (per la prima volta dalla Cassazione, a quanto risulta) che anche nel nostro ordinamento, qualora un datore di lavoro tratti un lavoratore che non sia esso stesso disabile, in modo sfavorevole rispetto al modo in cui è , è stato o sarebbe trattato un altro lavoratore in una situazione analoga, e sia provato che il trattamento sfavorevole di cui tale lavoratore è vittima è causato dalla disabilità del coniuge al quale presta la parte essenziale delle cure di cui quest’ultimo ha bisogno, un siffatto trattamento viola il divieto di discriminazione diretta enunciato al detto art. 2, n. 2, lett. a).
La carenza di motivazione della Corte di merito sul punto, induce poi la Cassazione, una volta affermato il predetto principio, a spostare subito l’attenzione sull’onere della prova che, in caso di discriminazione associata, può risultare più gravoso potendosi forse chiedere su chi gravi l’onere di provare il collegamento con la persona disabile. La Corte risponde richiamando principi ormai consolidati, secondo i quali da un lato il lavoratore ha l’onere di allegare e dimostrare il fattore di rischio e il trattamento che assume come meno favorevole rispetto a quello riservato a soggetti in condizioni analoghe, e dimostrarne la correlazione significativa tra gli stessi; dall’altro il datore di lavoro deve dedurre e provare circostanze inequivoche, idonee ad escludere, per precisione, gravità e concordanza di significato, la natura discriminatoria della misura contestata.
Nel caso di specie la lavoratrice aveva adempiuto al sopraddetto onere probatorio, avendo dimostrato il suo fattore di rischio (la condizione di caregiver) e avendo offerto fatti idonei a far presumere la discriminazione già nella mancata offerta di una sede più vicina: in particolare la circostanza che altri lavoratori fossero stati trasferiti in sedi di loro gradimento e non licenziati e l’esistenza di sedi della società più vicine alla residenza del disabile.
In sostanza la sentenza d’Appello viene cassata perché il giudice di merito, pur avendo dato atto della condizione di caregiver e del fatto che fossero stati indicati fatti idonee a far presumere la discriminazione della lavoratrice, non ne aveva tratto alcuna conseguenza sotto il profilo sanzionatorio, procedendo a considerare la vicenda come un caso di licenziamento illegittimo per giustificato motivo: non è cosi, conferma la Corte, perché il gruppo dei caregiver è, ad ogni effetto, un gruppo protetto dal diritto antidiscriminatorio e come tale deve essere considerato, anche (e soprattutto) a fronte di esigenze di riorganizzazione ed efficientamento economico-finanziario. La mancata offerta di un trasferimento in una sede più vicina può dunque costituire discriminazione e questo travolge anche per il licenziamento conseguente della lavoratrice che sarà anch’esso discriminatorio.
La Redazione