Universal family allowance and the new “Legge europea”: between novelty and contradictions
L’entrata in vigore, quasi in contemporanea, della Legge europea 2019/2020 e delle norme sull’assegno unico universale ha decretato la fine della limitazione delle prestazioni sociali ai soli stranieri titolari di permesso di soggiorno di lungo periodo; al contempo ha aperto nuove contraddizioni, che vengono esaminate nell’articolo. Numerose categorie di stranieri restano infatti ancora oggi esclusi sia dalla prestazione “universale” di famiglia, sia dalle altre prestazioni sociali.
The almost simultaneous approval of the “Legge europea” 2019/2020 and of the regulation on the universal family allowance has finally put an end to the exclusion from social benefits of third countries nationals holding a long-term residence permit; at the same time, it has opened up new contradictions, which are examined in this article. Many categories of third countries nationals are still excluded from both the ‘universal’ family benefit and other social benefits
1.Fine anno pirotecnica per la vexata quaestio dell’accesso dei cittadini di paesi extra UE alle prestazioni sociali.
Mentre si attendono le motivazioni della sentenza con la quale la Corte Costituzionale ha dichiarato incostituzionale l’esclusione dei titolari di permesso unico lavoro dall’assegno di natalità e dall’assegno di maternità[1] e mentre si attende la decisione della stessa Corte sull’assegno ai nucleo familiare[2], governo e parlamento hanno finalmente varato due attesi e fondamentali provvedimenti che tuttavia, anche per l’assenza di coordinamento tra gli stessi, aprono almeno tanti problemi quanti ne risolvono.
Il primo è la legge europea 2019-2020 (l. 23.12.2021 n. 238, in GU n. 12 del 17.1.2022) cioè l’insieme delle disposizioni per l’adempimento degli obblighi derivanti dalla appartenenza dell’Italia alla Unione Europea in relazione a procedure di infrazione già in corso o a situazioni di incompatibilità dell’ordinamento interno con quello UE.
La norma che qui viene in considerazione è l’art. 2 con il quale l’Italia – facendo seguito alla procedura di infrazione 2019/2100 – cerca finalmente di dare attuazione alla direttiva 2011/98 che fissa un contenuto minimo di diritti per i cittadini di paesi terzi che fanno ingresso nell’area UE con un permesso che consente dii lavorare ; cioè alla direttiva che – come noto – era stata malamente recepita nel 2014 (con il d.lgs. 14/2014) ignorando completamente gli obblighi di parità di trattamento imposti dall’art. 12 della stessa.
La mancata ricezione ha dato luogo appunto a un infinito contenzioso che ha condotto, tra l’altro, alle citate sentenze della Corte UE 3.9.2021 e 25.11.2020 (oltre che, già in precedenza, alla sentenza 21.6.2017 C- 449/16 Martinez in tema di assegno famiglie numerose).
In assenza di recepimento, il principio generale regolatore della materia era dunque rimasto quello fissato dal TU immigrazione nel 1998 che, all’art. 41, sanciva la parità di trattamento nelle prestazioni “di assistenza sociale” alla sola condizione che lo straniero fosse titolare di un permesso di soggiorno di almeno un anno: principio da un lato fortemente paritario (i permessi di soggiorno di durata inferiore sono relativamente pochi); dall’altro via via smantellato prima dell’art. 80, comma 19 L. 388/2000, poi dalle singole disposizioni che avevano di fatto riservato tutte le prestazioni di assistenza ai soli titolari di permesso di lungo periodo; dall’altro ancora non privo di criticità in quanto affida il requisito del collegamento tra richiedente e territorio a un dato tutto sommato casuale (anche stranieri residenti da anni in Italia possono trovarsi ad avere, nel momento in cui chiedono la prestazione, un permesso di durata inferiore all’anno[3]); laddove invece il criterio di collegamento scelto dalla direttiva è diverso e ben più razionale (l’aver accesso – effettivo o potenziale – al mercato del lavoro)[4].
La legge europea 2019/2020 mette dunque mano alla riforma dell’art. 41 con ciò sancendo innanzitutto la definitiva sepoltura dell’art. 80, comma 19 L. 388/2000 : in base al principio di cui all’art. 15, secondo comma, preleggi, la norma del 2000 deve ritenersi definitivamente abrogata per assoluta incompatibilità con la norma successiva (quella, appunto, ora adottata). Solo per la consueta distrazione del legislatore l’art. 80, comma 19, cit. risulta tuttora formalmente vigente, ma non vi è dubbio che la regola generale “il welfare solo ai lungosoggiornanti” che allora si era voluta introdurre e che per oltre 20 anni ha escluso dalle prestazioni sociali più del 40% degli stranieri regolarmente soggiornanti, è ora definitivamente superata.
2. Il primo comma del nuovo articolo 41 non sposta granchè: la regola generale rimane la medesima (permesso di soggiorno di almeno un anno) ma si precisa che vengono fatti salvi i due commi successivi (di cui si dirà subito) e che l’equiparazione è estesa (ma non poteva essere diversamente) ai minori indipendentemente, nel loro caso, dalla durata del permesso di soggiorno.
Dal testo del primo comma e dal coordinamento con i (nuovi) due commi successivi risulta tuttavia che la regola del permesso di almeno un anno vale solo per coloro che sono titolari di permessi di soggiorno “diversi da quelli di cui ai commi 1bis e 1ter” e non qualificabili quindi come permesso unico lavoro ai sensi dell’art. 5, comma 8.1. TU Immigrazione.
In proposito va subito rilevato che, benchè detto comma 8.1. sia stato introdotto appunto in sede di recepimento della direttiva 2011/98, l’ambito di applicazione del “permesso unico lavoro” di diritto nazionale non è esattamente sovrapponibile all’ambito di applicazione della direttiva 2011/98. Secondo detto comma 8.1., i permessi che, pur consentendo di lavorare, non sono qualificabili come “permesso unico lavoro” sono i seguenti:
- i permessi di lungo periodo ex art. 9 TU Immigrazione, anche se rilasciati ai titolari di protezione;
- i permessi per protezione internazionale;
- i permessi per protezione sociale (ex art. 18 TU Immigrazione);
- i permessi per vittime di violenza domestica (ex art. 18bis TU Immigrazione);
- i permessi per calamità (ex art. 20bis TU Immigrazione);
- i permessi per particolare sfruttamento lavorativo (ex art. 22 c. 12quater TU Immigrazione);
- i permessi per protezione rilasciati ai sensi dei commi 1 e 1.1. dell’art. 19 (cioè ai sensi dei due commi richiamati dall’art. 32 c. 3 d.lgs. 25/08 a sua volta richiamato dall’art.5. comma 8.1. TU[5]);
- i permessi per lavoro stagionale (ex art. 24 TU Immigrazione);
- i permessi per lavoro autonomo (ex art. 26 TU Immigrazione);
- alcuni particolari permessi rilasciati ai lavoratori “fuori quota” (ex art. 27 TU Immigrazione).
Per tutti costoro (e non sono pochi, si pensi ai lavoratori autonomi) vale quindi la regola generale sopra richiamata, con la conseguenza che se il permesso di soggiorno è di almeno un anno (come nel caso delle vittime di violenza domestica o nel caso del permesso per lavoro autonomo) sarà garantita la parità di trattamento; se il permesso è di durata inferiore (si pensi al permesso per calamità naturali ex art. 20 bis cit.) lo straniero resterà escluso dalla parità di trattamento, salvo disposizioni più favorevoli relative alla singola prestazione.
Per i titolari di permesso unico lavoro il regime è invece diverso e vorrebbe evidentemente avvalersi – limitatamente all’ambito oggettivo di applicazione dell’art. 12 lettera e) direttiva 2011/98, cioè quello delle prestazioni di sicurezza sociale di cui al Regolamento 883/04 – delle facoltà di deroga previste dall’art. 12, comma 2, lettera b) della direttiva stessa[6], sancendo anche in questo caso un rilevante punto fermo: se solo con la legge in esame viene esercitata la facoltà di deroga, ciò significa che fino ad ora detta facoltà non era mai stata esercitata, dal che consegue che fino al 2022 l’obbligo di parità di trattamento era pienamente vigente e applicabile, come infatti le citate sentenze della Corte UE hanno confermato[7] .
3. Vediamo quindi in che termini opera la citata limitazione della parità di trattamento, consentita dalla direttiva.
Ai sensi del nuovo comma 1bis dell’art. 41, la equiparazione ai cittadini italiani dei titolari di permesso unico lavoro opera (e, si ribadisce, limitatamente alle prestazioni di sicurezza sociale) non in presenza di un permesso di soggiorno di almeno un anno, ma in presenza di due diversi requisiti: l’avvenuto svolgimento di attività lavorativa per almeno 6 mesi e la dichiarazione di immediata disponibilità al lavoro da rendere agli uffici del lavoro ai sensi dell’art. 19 d.lgs. 150/11.
Per le prestazioni familiari (che sono un “sottogruppo” rispetto a quello più ampio delle prestazioni di sicurezza sociale[8]) opera poi un regime ancora diverso: l’equiparazione opera “esclusivamente” (così precisa la norma) in favore dei titolari di permesso unico lavoro e in presenza di un permesso che autorizzi lo svolgimento di attività lavorativa per un periodo superiore a 6 mesi (o di un permesso per motivi di ricerca che autorizzi a soggiornare per un periodo superiore a 6 mesi). L’introduzione dell’avverbio “esclusivamente”, se non è casuale, potrebbe comportare effetti del tutto illogici.
Tralasciando in questa sede la situazione dei ricercatori (regolata dalla direttiva 2016/801/UE) una prima contraddizione emerge tra il comma 1 e il comma 1bis dell’art. 41 cioè tra la condizione “generale” del titolare di permesso di almeno un anno e condizione del titolare di permesso unico lavoro che ha lavorato per almeno 6 mesi.
Consideriamo ad esempio la condizione dei cittadini di paesi extra UE che chiedono di accedere a prestazioni di invalidità.
Come noto, queste prestazioni erano rimaste orfane di una disciplina specifica dopo le varie pronunce di incostituzionalità che avevano escluso la legittimità del requisito del permesso d lungo periodo; era tuttavia rimasto vigente (e in effetti applicato dall’INPS) il requisito di cui all’art. 41, peraltro in contraddizione con il carattere essenziale della prestazione che la Corte aveva via via riconosciuto: non a caso la giurisprudenza di merito ha talvolta ritenuto di superare anche il limite dell’art. 41, riconoscendo le prestazioni di invalidità anche a titolari di permesso di soggiorno di durata inferiore all’anno[9].
Ora, quindi, anche queste prestazioni (che certamente rientrano nell’ambito delle prestazioni di sicurezza sociale, essendo l’invalidità prevista alla lettera c) dell’art. 3 del Regolamento 883/04) sarebbero interessate dalla modifica dell’art. 41, con esiti che tuttavia suscitano perplessità: così ad esempio un titolare di permesso per lavoro autonomo che chiede di accedere alla indennità di accompagnamento sarà soggetto (non essendo titolare di permesso unico lavoro) al comma 1 e dunque dovrà avere un permesso di almeno un anno (coma accade già oggi); ma il suo connazionale titolare di un permesso per famiglia potrà accedere alla stessa prestazione solo se ha lavorato almeno 6 mesi e se dichiara la sua disponibilità al lavoro (comma 1bis), il che è ovviamente illogico per prestazioni di invalidità. Una simile illogicità può risolversi solo chiarendo che, anche per i titolari di permesso unico lavoro, la condizione di cui al comma 1bis deve intendersi di miglior favore e che pertanto, se manca il requisito dei 6 mesi di lavoro, resta comunque applicabile il requisito del permesso di almeno un anno: ciò che la norma non dice (anzi, dice espressamente che il comma 1 si applica solo a chi ha un permesso diverso da quello di cui al comma 1bis), ma che deve necessariamente essere, pena l’assoluta irragionevolezza della distinzione che finirebbe per richiedere la disponibilità al lavoro a chi non può darla.
Resta il fatto che, soprattutto per le prestazioni di invalidità, la riforma avrebbe potuto essere una buona occasione per recuperare quella nozione di “bisogno primario e assoluto” (e di conseguente risposta altrettanto assoluta) che traspare dalle citate sentenze della Corte Costituzionale e che avrebbe dovuto indurre – indipendentemente dalla esistenza di un vincolo eurounitario – a riconoscere le prestazioni a prescindere dalla durata del titolo di soggiorno: ma l’occasione è stata sprecata lasciando così aperto il problema sollevato dalla giurisprudenza di merito sopra citata
4. Quanto poi alle prestazioni familiari la questione appare ancora più controversa, a causa del già segnalato “esclusivamente” collocato nel comma 1ter relativo appunto alle prestazioni familiari. Se infatti si deve dar credito al predetto avverbio si dovrebbe concludere – e aimhè la conclusione sembra inevitabile – che al di fuori del permesso unico lavoro non vi sarebbe parità di trattamento per le prestazioni familiari, nemmeno se il permesso è superiore all’anno, come accade ad es. per i titolari di protezione speciale, per i titolari di permesso per lavoro autonomo, per le titolari di permesso per violenza domestica e così via: il permesso unico lavoro, fino ad ora ignorato dal legislatore come fonte di diritti sociali diventerebbe paradossalmente l’unica via per accedere alle prestazioni familiari.
Proviamo anche in questo caso a esemplificare: una amministrazione comunale che volesse istituire un prestazione di contrasto alla povertà (dunque non compresa nelle prestazioni di sicurezza sociale di cui al Regolamento 883/04[10]) potrebbe riservarla a coloro che hanno un permesso di soggiorno di almeno un anno ai sensi del comma 1 dell’art. 41, indipendentemente dal fatto che si tratti di permesso unico lavoro o di altro permesso, non sussistendo in questo caso il vincolo dell’ “esclusivamente”); se invece istituisse un “bonus bebe” (e dunque una prestazione familiare) dovrebbe riservarla “esclusivamente” ai titolari di un permesso unico lavoro superiore ai 6 mesi (comma 1ter) escludendo tutte le categorie sopra citate, indipendentemente dalla durata del permesso
Davvero difficile immaginare come potrà una amministrazione comunale districarsi in un simile groviglio; e ancor più difficile immaginare, stante la protezione costituzionale della famiglia, la conformità a Costituzione di un simile assetto normativo; e prima ancora la logica che lo dovrebbe sorreggere, essendo inspiegabile perché mai il titolare di questi permessi debba godere, qualora il permesso sia di almeno un anno, della parità di trattamento nelle prestazioni di disabilità o di vecchiaia (alcuni degli altri rischi contemplati dall’art. 3 del Regolamento 883/04) ma non nelle prestazioni familiari, per le quali deve essere titolare “esclusivamente” di permesso unico lavoro.
D’altra parte è di tutta evidenza che nel disegno del legislatore dell’Unione, la distinzione tra la generalità delle prestazioni e le prestazioni familiari (prevista dall’art. 12, comma 2, lett b) era volta a favorire l’accesso a queste ultime, non a limitarlo e sarebbe invece paradossale che, nell’ordinamento interno, si determinasse l’effetto opposto.
Non resta he sperare che la circolare INPS – che già il messaggio INPS n. 4748 del 31.12.2021 preannunciava “di prossima pubblicazione” ma che ad oggi (18.1.2022) non ha ancora visto la luce – intervenga anche su questo punto, garantendo le prestazioni familiari anche ai titolari di altri permessi purchè rientrino nel comma 1bis (lavoro effettivo di almeno 6 mesi e disponibilità al lavoro) o nel comma 1 (permesso di almeno un anno).
5. Siamo così alla prestazione familiare per eccellenza, anzi pressochè l’unica dal 1.1.2022 cioè l’assegno unico universale per i figli a carico disciplinato dalla legge delega 46/2021 e dal decreto delegato 21.12.2021 n. 230 (pubblicato in GU il 30.12.2021).
L’assegno è chiamato a sostituire gran parte delle prestazioni che hanno dato luogo al contenzioso sopra richiamato, cioè l’assegno di natalità, l’assegno famiglie numerose, il premio alla nascita e l’assegno al nucleo familiare (ANF): resteranno quindi in vita l’assegno di maternità di base di cui agli artt. 74 e 75 d.lgs. 151/2001, il bonus asili nido e la Carta della famiglia. La nuova prestazione sostituisce anche l’assegno al nucleo familiare di cui all’art. 2 del DL 13.3.88 n. 69, convertito in L. 13.5.88 n. 153, determinando così una piccola rivoluzione: una prestazione di carattere prevalentemente previdenziale, finanziata dai contributi del datore di lavoro e riservata a lavoratori dipendenti, ai pensionati e ai titolari di NASPI (come era il vecchio ANF) viene sostituita da una prestazione prettamente assistenziale, finanziata dalla fiscalità generale e quindi effettivamente con aspirazione di “universalità”.
Dal punto di vista qui esaminato, tuttavia, l’assegno unico universale nasce male, perché il Parlamento ha votato la legge delega prevedendo il requisito del permesso di almeno un anno, senza avvedersi che, pressochè nelle spesse settimane, stava votando, in sede di legge europea, il requisito del permesso di almeno 6 mesi per le prestazioni familiari (tra le quali rientra sicuramente l’assegno).
Il decreto delegato ha così dovuto porre rimedio, introducendo requisiti diversi da quelli previsti dalla legge delega, ma con esiti altrettanto discutibili e forse coerenti con il già citato “esclusivamente” del comma 1ter , art. 41: secondo la formulazione del decreto delegato (art. 3) i cittadini extra UE che possono accedere all’assegno unico “universale” sono (oltre alle tradizionali categorie dei familiari di cittadini UE e dei titolari di permesso di lungo periodo) soltanto coloro che sono “titolari di permesso unico di lavoro autorizzato a svolgere un’attività lavorativa per un periodo superiore a sei mesi”.
La dizione “permesso unico di lavoro” non è esattamente identica a quella utilizzata dal comma 8.1 dell’art. 5 TU immigrazione (che parla di “permesso unico lavoro”) ma è la medesima utilizzata nella legge europea di cui prima si è detto e quindi occorre ritenere che, nonostante la pessima tecnica legislativa, si faccia qui riferimento proprio al permesso di cui al predetto comma 8.1.
La conseguenza è che tutti coloro che hanno un titolo di soggiorno non riconducibile alla categoria di “permesso unico” non potrebbero accedere all’assegno “universale”, neppure se presenti in Italia da anni, neppure se titolari di un permesso superiore all’anno e neppure se titolari di un rapporto di lavoro.
L’aspetto più anomalo di tutto ciò emerge considerando la situazione di chi in precedenza percepiva gli ANF in quanto lavoratore o pensionato, a prescindere dal suo titolo di soggiorno. Ora, da marzo 2022 (data in cui scatta la sostituzione) un padre che, in forza di un permesso per protezione speciale, svolge magari anche da danni una attività di lavoro subordinato perderebbe l’assegno al nucleo familiare e non si vedrebbe riconoscere nessun trattamento di famiglia.
Né la perdita è controbilanciata dalla estensione “universale” a categorie che prima non disponevano di prestazioni familiari come ad es i lavoratori autonomi o i disoccupati privi di NASPI: lo è per gli italiani che finalmente disporranno di un aiuto alla famiglia anche se si trovano in una di queste condizioni; ma non lo è per gli stranieri che, se titolari di permesso per lavoro autonomo, non potranno mai accedere all’assegno e se disoccupati potranno accedervi solo se titolari di permesso unico lavoro (e dunque se in precedenza occupati).
E l’irrazionalità raggiunge il massimo ove si consideri che il titolare di un permesso unico lavoro può svolgere lavoro autonomo senza necessità di convertire il permesso (e in tal caso continuerebbe a percepire l’assegno universale in forza del suo titolo di soggiorno) mentre il titolare di permesso per lavoro autonomo può svolgere lavoro subordinato, anche in questo caso senza necessità di conversione: ma in tal caso continuerebbe a non percepire nulla (a dispetto della sua condizione effettiva di lavoratore) fino alla conversione del permesso.
L’irrazionalità è dunque massima e se consideriamo che nel corso degli anni la quota di primi permessi rilasciati per “altre cause” (cioè non famiglia, non lavoro, non protezione internazionale) è andata via via crescendo, gli effetti non saranno certo irrilevanti: la soddisfazione per l’atteso superamento del limite del permesso di lungo periodo è dunque ampiamente controbilanciata dalla amarezza per una formulazione che è frutto di confusione tecnica o di una scelta politica a dir poco discutibile. Sembrerebbe cioè che il legislatore, resosi finalmente conto di aver troppo a lungo trascurato quel collegamento tra il migrante e il mercato del lavoro che le norme UE volevano valorizzare, abbia “esagerato” nell’imboccare questa strada, senza avvedersi che in tal modo escludeva persino coloro che hanno un collegamento effettivo con il mercato del lavoro (che, cioè, lavorano) ma in forza di un titolo di soggiorno non qualificabile come “permesso unico lavoro”.
6. Parimenti discutibile è, infine, la previsione della lettera d) dell’art. 3 che aggiunge al confuso requisito del titolo di soggiorno quello ulteriore della residenza biennale in Italia. Torna quindi l’irresistibile attrazione del legislatore verso il requisito di pregressa residenza come prova inconfutabile del radicamento territoriale dello straniero e della sua volontà di stabilizzarsi in Italia; tesi inutilmente smentita dalla Corte Costituzionale quando ha segnalato – se pure con riferimento alla normativa regionale – che la pregressa residenza non fornisce alcuna prognosi decisiva circa la futura stabilità dell’interessato (molto più è rilevante, ad es, il fatto che il figlio sia nato qui o qui frequenti una scuola) e che comunque le politiche sociali devono essere orientate alla risposta al bisogno e non a premiare la immobilità[11].
A prescindere da ciò, suscita perplessità l’indicazione dei possibili requisiti sostitutivi della residenza biennale, che vengono indicati (dalla citata lettera d) art. 3) nella titolarità di un rapporto a tempo indeterminato o a tempo determinato di almeno 6 mesi. A parte la fiducia taumaturgica nel contratto di lavoro a tempo indeterminato (che come noto non garantisce particolare stabilità più di quanto o non faccia la catena di successione di contratti a termine) il breve elenco di requisiti sostitutivi esclude una casistica amplissima di situazioni che ben potrebbero attestare un radicamento del tutto analogo a quello del biennio di residenza: si pensi alla analogia di situazioni di chi ha fatto da poco ingresso con un permesso per lavoro e che, se ottiene un contratto a termine di 6 mesi accede subito all’assegno, ma se apre un solido esercizio commerciale no.
Si aggiunga che anche il titolare di un contratto a termine semestrale non può dormire sonni del tutto tranquilli, non essendo per nulla chiaro se, cessati i 6 mesi di contratto, continuerà a percepire l’assegno: trattandosi di un requisito di accesso (sostitutivo dei due anni idi residenza) sembrerebbe doversi dare risposta positiva (una volta avuto accesso alla prestazione il diritto non dovrebbe perdersi, se non al termine dell’anno di validità delle certificazioni reddituali). Ma l’art. 3, comma 1 ricorda che i requisiti di accesso devono permanere per l’intero periodo di erogazione e dunque non meraviglierebbe se la posizione dell’INPS fosse infine quella di un riconoscimento “intermittente” dell’assegno, che cessa al cessare del contratto a termine, fino a che non venga maturato il requisito biennale.
Per chiudere infine il quadro un po’ desolante resta da considerare la condizione dei titolari di protezione internazionale. Ancora una volta il legislatore “finge” di dimenticarli scaricando poi sull’INPS l’onere di reintrodurli a mezzo di circolari o messaggi (così è accaduto infatti per il reddito di cittadinanza e per l’assegno di natalità) per non incorrere in violazione dell’art. 29 d.lgs. 2011/95[12].
Così andrà probabilmente anche questa volta onde si attende un provvedimento dell’INPS che ponga rimedio: provvedimento anche questa volta indispensabile perché – come si è visto – l’estraneità del permesso per protezione al “permesso unico lavoro” finirebbe per escludere i titolari di detto permesso da qualsiasi prestazione di famiglia in evidente contrato, appunto, con detto art. 29.
Insomma, quando si tratta di disciplinare l’accesso degli stranieri al welfare, la semplificazione e l’omogeneità di trattamento tra situazioni analoghe, il rispetto del diritto dell’Unione non riescono proprio a trovare spazio nell’attività del legislatore.
Alberto Guariso, avvocato del foro di Milano
[1] Il comunicato stampa della Corte del 12.1.2022 dà atto che la pronuncia è nel senso della incostituzionalità delle norme censurate. La sentenza della Corte di Giustizia UE che ha deciso sul rinvio disposto dalla stessa Corte Costituzionale è la sentenza 2.9.2021 C-350/2021 (reperibile in banca dati di questo sito). La decisione del 11.1.2022 fa seguito appunto alla decisione della Corte UE.
[2] Si tratta della eccezione di costituzionalità sollevata dalla Cassazione con le ordinanze 18.4.2021 (reperibili in questo sito) dopo le sentenze della CGUE del 25.11.2020 in cause C-302/19 e C-303/19)
[3] Ad es. l’art. 5, comma 3bis TU Immigrazione, consente che, in caso di permesso per lavoro a tempo determinato di breve durata, allo straniero possa essere rilasciato un permesso di soggiorno di durata inferiore all’anno.
[4] Come noto, la direttiva, ai sensi dell’art. 3, si applica a tutti coloro che hanno fatto ingresso per lavoro e a quelli hanno fatto ingresso per motivi diversi, ma ai quali è consentito di lavorare.
[5] Si noti che il doppio richiamo dall’art. 5 comma 8.1 all’art. 32, comma 3 d.lgs. 25/08 che a sua volta richiama solo i commi 1 e 1.1. dell’art. 19 TU Immigrazione sembra far sì che l’elenco dei permessi esclusi dalla nozione di “permesso unico lavoro” non comprenda i permessi di cui al comma 2 dell’art. 19 e quindi, in particolare, dei familiari di cittadini UE e dei titolari di permesso per cure mediche.
[6] Ai sensi di detto articolo gli Stati membri possono limitare la parità di trattamento “limitando i diritti conferiti ai lavoratori di paesi terzi ai sensi del paragrafo 1, lettera e), senza restringerli per i lavoratori di paesi terzi che svolgono o hanno svolto un’attività lavorativa per un periodo minimo di sei mesi e sono registrati come disoccupati”.
[7] E’ nota la consolidata giurisprudenza della Corte UE secondo la quale le facoltà di deroga concesse dal diritto derivato deve essere esercitate in modo chiaro ed esplicito (da ultimo CGUE 25.11.2020 C-303/19, punto 37 e segg. e anche Corte Cost. 182/2021 citata) con la conseguenza che la deroga, una volta esercitata non può certo retroagire a momenti nei quali non era stata esercitata rispetto ai quali quindi il diritto dell’Unione mantiene la sua piena efficacia nei termini generali stabiliti dalla direttiva.
[8] Le prestazioni familiari sono inserite alla lettera J dell’art. 3 Regolamento 883/04, sono distinte dalle prestazioni di maternità e paternità (inserite alla lettera b) e sono definite dalla lettera z) dell’art. 2 nei seguenti termini : “tutte le prestazioni in natura o in denaro destinate a compensare i carichi familiari, ad esclusione degli anticipi sugli assegni alimentari e degli assegni speciali di nascita o di adozione menzionati nell’allegato 1”. La CGUE ha poi ripetutamente precisato che l’espressione “prestazioni familiari” “indica tutte le prestazioni in natura o in denaro destinate a compensare i carichi familiari, ad esclusione degli anticipi sugli assegni alimentari e degli assegni speciali di nascita o di adozione menzionati nell’allegato I di detto regolamento. Le prestazioni familiari sono quindi destinate ad aiutare socialmente i lavoratori aventi carichi familiari facendo partecipare la collettività a tali carichi. A tale riguardo, la Corte ha dichiarato che l’espressione «compensare i carichi familiari» deve essere interpretata nel senso che essa fa riferimento, in particolare, a un contributo pubblico al bilancio familiare, destinato ad alleviare gli oneri derivanti dal mantenimento dei figli” (così da ultimo anche in CGUE 28.10.2021 C- 462/2020 punto 27, reperibile nella banca dati di questo sito)
[9] Così Trib.Arezzo 23.6.2020 est. Rispoli, reperibile nel sito www.asgi.it.
[10] L’art. 3 del Regolamento 883/04 elenca i settori di applicazione del Regolamento omettendo dall’elenco il “rischio povertà”
[11] Così, in particolare, la sentenza 44/2020.
[12] Sulla interpretazione dell’art. 29 e sugli effetti paritari di parità di trattamento ivi contenuta cfr. da ultimo CGUE 28.10.2021 C- 462/2020, in questo sito, con nota di A. Guariso