Osservatorio sulla giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti Umani in materia di divieto di discriminazione
Observatory on the case law of the European Court of Human Rights on the prohibition of discrimination
La presente rubrica si propone di fornire informazioni periodiche circa l’evoluzione della giurisprudenza CEDU in materia di diritto antidiscriminatorio. Come noto le disposizioni interessate sono l’art. 14 della Convenzione, che prevede il divieto di discriminazione nel godimento dei diritti garantiti dalla stessa Convenzione, ed il protocollo 12 art. 1 (generale divieto di discriminazione). Quest’ultimo ha spettro applicativo più ampio (facendo riferimento al godimento di qualsiasi diritto previsto dalla legge), ma è stato ratificato da un numero ristretto di Stati, di cui non fa parte l’Italia.
MARZO 2022
Zakharova e altri contro Russia (n. 12736/10), terza sezione, 8 marzo 2022
Nel caso in esame le tre ricorrenti, lavoratrici presso un istituto di istruzione comunale a Ostrov, Regione di Pskov, in Russia, hanno lamentato di essere state vittima di discriminazione da parte del datore di lavoro in ragione della loro appartenenza ad un’associazione sindacale.
Le ricorrenti erano esponenti di un sindacato di istituto associato ad un più ampio sindacato distrettuale. Al momento dello scioglimento di quest’ultimo le ricorrenti sono state invitate a far sì che il loro sindacato aderisse direttamente al sindacato regionale, dietro minaccia di licenziamento. A seguito del rifiuto opposto dalle ricorrenti, che hanno chiesto l’adesione per il loro sindacato ad una diversa associazione “indipendente”, il datore di lavoro ha inizialmente ridotto il loro orario e il loro stipendio, e successivamente le ha licenziate. Le azioni datoriali sono state ogni volta annullate: per due volte a seguito dell’iniziativa del procuratore distrettuale (che ha fatto annullare le delibere riguardanti le modifiche all’orario di lavoro e due licenziamenti) e infine, con riferimento all’ultimo di tre licenziamenti, a seguito di pronuncia giudiziale. Le ricorrenti hanno lamentato dinanzi alle corti interne di aver subito un trattamento discriminatorio sulla base della propria appartenenza al sindacato e dell’attività sindacale svolta. Hanno evidenziato come il licenziamento (formalmente per riduzione del personale a causa di insufficienza di fondi) fosse ingiustificato non solo perché esse erano state le uniche dipendenti ad essere licenziate, ma anche perché nello stesso periodo erano state assunti nuovi dipendenti, e perché alcune di loro erano state licenziate nonostante si trovassero in situazioni che – secondo la legge russa – avrebbero dovuto garantire loro una maggiore tutela in caso di licenziamento per riduzione del personale (es. genitori single di minori). Inoltre il licenziamento delle ricorrenti era intervenuto nel momento in cui le stesse, quali rappresentanti del sindacato di istituto, stavano conducendo trattative per la stipula di contratti collettivi con il datore di lavoro.
Il giudice di primo grado (Tribunale della città di Ostrov) ha riconosciuto l’illegittimità del licenziamento ritenendo che non fosse stata rispettata la procedura che prevedeva la consultazione del sindacato delle ricorrenti in caso di licenziamento. Ha inoltre evidenziato come le ricorrenti fossero già state destinatarie di provvedimenti di licenziamento nel 2008 ed ha richiamato la giurisprudenza della Corte Suprema della Federazione Russa secondo cui l’onere di dimostrare la legittimità del licenziamento grava sul datore di lavoro, ritenendo che nel caso di specie il datore non avesse fornito una dimostrazione sufficiente circa la base legale del licenziamento.
Il 7 giugno 2009 la Corte regionale di Pskov, pur confermando la pronuncia di primo grado nella parte in cui riteneva il licenziamento illegittimo per violazione procedurale (e dunque la reintegra delle ricorrenti), ha riformato la parte della sentenza relativa all’esistenza di una discriminazione, sostenendo che “gli elementi del caso in esame non contengono la prova che l’appartenzenza delle ricorrenti all’associazione sindacale sia stata la ragione del loro licenziamento”.
La Corte EDU ha ritenuto la risposta delle autorità russe insufficiente a garantire il rispetto degli obblighi previsti dall’art. 14 della Convenzione (divieto di discriminazione) in combinato con l’art. 11 (libertà di associazione).
L’art. 11 comma 1 in particolare garantisce il “diritto di partecipare alla costituzione di sindacati e di aderire ad essi per la tutela dei propri interessi”. La giurisprudenza della Corte ha ritenuto la libertà di adesione ad un sindacato nell’ambito della libertà di associazione quale elemento essenziale del dialogo tra le parti sociali, ed un importante strumento nel perseguimento dell’armonia e giustizia sociale (Sindicatul “Păstorul cel Bun” v. Romania [GC], 2013, § 130).
La Corte ha dunque ritenuto le ricorrenti, quali rappresentanti sindacali, appartenenti ad un “gruppo protetto”, affermando importanti concetti anche in materia di ripartizione dell’onere della prova nei casi di discriminazione, richiamando fonti internazionali diverse quali la Carta Sociale Europea e le pronunce del Comitato Europeo dei Diritti Sociali, nonchè i principi affermati dal Comitato tripartito sulla libertà di associazione dell’OIL (incaricato di promuovere la Convenzione n. 87 sulla libertà di associazione di lavoratori e imprenditori). In particolare ha evidenziato che:
a) la reintegra delle ricorrenti, sulla base di motivi diversi dall’accertamento di una discriminazione, non esclude il loro status di “vittime” rilevante ai fini dell’ammissibilità del ricorso davanti alla Corte Edu ai sensi dell’art. 34 della Convenzione;
b) il criterio generale in materia di ripartizione di onere della prova nei giudizi dinanzi alla Corte è che mentre il ricorrente ha l’onere di dimostrare l’esistenza di una disparità di trattamento lo Stato ha l’onere di dimostrare che tale disparità è giustificata (principio già affermato ad esempio in D.H. e altri c. Repubblica Ceca [GC], no. 57325/00, § 177, ECHR 2007-IV).
c) nei procedimenti interni, dinanzi alle allegazioni delle ricorrenti il giudice nazionale avrebbe dovuto valutare se – prima facie – vi fossero elementi da cui desumere l’esistenza di una discriminazione. In presenza di tali elementi (che la Corte ha ritenuto ricorrere nel caso di specie) il giudice avrebbe dovuto porre l’onere di dimostrare la legittimità del licenziamento in capo al datore di lavoro, in maniera tale da confutare una allegazione sostenibile di discriminazione. Non è sufficiente a tal fine dare genericamente atto della mancata dimostrazione dell’avvenuta discriminazione.
d) per valutare se prima facie sussista una discriminazione la Corte può liberamente apprezzare tutte le prove, può basarsi su deduzioni forti, chiare e concordanti, tratte dai fatti e dalle dichiarazioni delle parti, e su presunzioni di fatti non oggetto di confutazione. Può individuarsi una discriminazione prima facie qualora emergano elementi che un osservatore indipendente potrebbe ritenere sufficienti per concludere ragionevolmente che l’appartenenza dei ricorrenti ad un gruppo protetto abbia avuto un ruolo preponderante nel trattamento dagli stessi subito da parte del loro datore di lavoro
In applicazione di tali principi la Corte ha ritenuto che – a fronte dei fatti non contestati dai quali poteva desumersi che le ricorrenti avessero subito azioni ostili del datore di lavoro in ragione della propria appartenenza sindacale – le autorità statali non abbiano esaminato la denuncia di discriminazione con la dovuta attenzione per garantire loro una una reale ed effettiva protezione da azioni antisindacali.
Ha quindi ritenuto che lo Stato non avesse adempiuto ai suoi obblighi positivi di garantire una protezione giudiziaria efficace e chiara contro la discriminazione basata sull’appartenenza ad associazioni sindacali, e che conseguentemente vi sia stata una violazione dell’art. 14 della Convenzione in combinato disposto con l’articolo 11.
In base all’art. 41 della Convenzione la Corte ha quindi disposto il risarcimento del danno non patrimoniale subito dalle ricorrenti nella misura di 7.500 euro ciascuna.
La Corte non ha invece riscontrato una violazione delle altre disposizioni invocate dalle ricorrenti, art. 6 e 13 della Convenzione.
Y e altri contro Bulgaria (n. 9077/18), quarta sezione, 22 marzo 2022
Nel caso in esame la Corte si è occupata ancora una volta di femminicidio. Pur riscontrando una violazione degli obblighi di protezione della vita umana da parte delle autorità dello Stato convenuto (art. 2 CEDU), non ha riscontrato una violazione dell’art. 14.
I ricorrenti sono i parenti di una donna (la signora V.) che è stata uccisa dal marito (il signor V.). Nei mesi precedenti l’omicidio, la signora V. ha denunciato alle autorità il comportamento minaccioso del marito in diverse occasioni: una prima denuncia è avvenuta a novembre 2016, a seguito del danneggiamento dell’automobile della sig.ra V (pneumatici tagliati). In quella occasione la signora V. ha denunciato anche le minacce di morte ricevute dal marito in occasione di un litigio di alcuni giorni prima, evidenziando che egli era in possesso di un’arma e che lei temeva per la propria incolumità.
A marzo 2016 il caso relative al danneggiamento è stato archiviato, tenuto conto della dichiarazione del sig. V. che aveva affermato di non essersi trovato in città nei giorni in questione e di non avere a che fare con il taglio degli pneumatici (in assenza di telecamere di sorveglianza). Non sono state svolte indagini circa il possesso di un’arma da parte del sig. V., nè su altre circostanze oggetto della denuncia.
A gennaio 2016 la madre della sig.ra V ha richiesto l’intervento della polizia per l’atteggiamento aggressivo del sig. V., il quale si era recato presso l’appartamento della suocera e pretendeva di portare fuori le due figlie della coppia. Gli agenti di polizia in quell’occasione ammonivano sia il sig. V. che la suocera e li invitavano a risolvere le proprie controversie per le vie legali.
Il 13 febbraio 2017 la sig.ra V. ha sporto una nuova denuncia alla polizia, affermando che il sig. V. l’aveva seguita, a piedi e in macchina, insultata e minacciata, e che temeva per la propria vita e non si sentiva sicura ad uscire di casa da sola o con le proprie figlie.
Il sig. V. è stato chiamato dagli agenti di polizia a riferire sulla condotta denunciata, egli ha ammesso di avere incontrato la sig.ra V. ma ha negato di averla minacciata o insultata. L’ufficiale di polizia lo ha ammonito dicendogli di non fare minacce o insultare la moglie. La Sig.ra V. ha chiesto l’emissione di una misura interdittiva, e il 17 febbraio è stato emesso nei confronti del sig. V un divieto di avvicinamento a meno di 100 metri dalla sig.ra V. Tuttavia l’ordinanza non è stata materialmente notificata al sig. V. Il caso è stato successivamente archiviato.
Il 17 agosto la sig.ra V. ha chiamato il numero di emergenza della polizia rappresentando che il sig. V. la stava seguendo in macchina, aveva tentato di avvicinarla e non stava rispettando il divieto di avvicinamento. L’operatore l’ha invitata a sporgere denuncia scritta, cosa che la sig.ra V. ha fatto poche ore dopo. A mezzogiorno del 18 agosto è tornata dalla polizia presentando un’analoga denuncia poiché le violazioni si erano ripetute ed era molto impaurita. Poco prima delle ore 15 il sig. V. l’ha raggiunta mentre era seduta ad un caffè con un’amica, e l’ha uccisa con cinque colpi di pistola.
Con riferimento ai fatti sopra descritti i ricorrenti hanno lamentato l’inerzia delle istituzioni nel proteggere in maniera efficace la vita della sig.ra V., ritenendo che il comportamento delle autorità andasse valutato complessivamente a partire dal momento in cui la Sig.ra V. aveva per la prima volta contattato la polizia (circa nove mesi prima della sua morte).
La Corte ha ritenuto che la reazione della autorità non sia stata sufficientemente tempestiva ed efficace sotto diversi aspetti: in primo luogo nei mesi in cui si sono occupati della prima denuncia non hanno svolto indagini sufficientemente accurate. Successivamente, pur essendo stata emessa una misura preventive (divieto di avvicinamento) il dipartimento di polizia chiamato a farla eseguire la aveva semplicemente inserita nel fascicolo, senza attivarsi per fare in modo che il sig. V. la rispettasse. Infine con riferimento alle denunce avvenute nelle ore precedenti all’uccisione della sig.ra V., esse non erano state neppure trasmesse agli organi competenti.
In nessuna delle occasioni la polizia avrebbe analizzato la condotta del Sig. V. cercando di capire quali avrebbero potuto esserne gli sviluppi e che cosa essa avrebbe potuto far presagire. Non sarebbe stata documentata alcuna valutazione del rischio. Se pure fosse stata svolta informalmente una simile valutazione, in ciascuna delle occasioni rilevanti, questa non potrebbe considerarsi autonoma, proattiva e completa, requisiti enunciati e spiegati nella sentenza Kurt contro Austria (Grande Camera n. 62903/2015 del 15 giugno 2021).
In tale sentenza la Corte aveva precisato che i termini “autonoma” e “proattiva” si riferiscono alla necessità che la valutazione delle autorità non si basi esclusivamente sulla percezione del rischio da parte della vittima, ma che la integrino con una propria valutazione, raccogliendo e valutando informazioni su tutti i fattori di rischio e gli elementi rilevanti del caso. Ha inoltre fatto riferimento all’utilizzo di check list, standardizzate e riconosciute a livello internazionale, che indicano specifici fattori di rischio, sviluppate sulla base di solide ricerche criminologiche e delle best practices sviluppate nei casi di violenza domestica, al fine di una indagine “completa”. Sul punto la Corte aveva evidenziato altresì l’importanza di una regolare formazione e sensibilizzazione per gli operatori in questione, in particolare per ciò che concerne gli strumenti di valutazione del rischio e la comprensione delle dinamiche nei casi di violenza domestica. La valutazione comporta l’identificazione di tutte le potenziali vittime – dirette o indirette – e dell’eventuale diverso livello di rischio per ciascuna di esse.
Con riferimento al concetto di “rischio immediato” la Corte, sempre nel caso Kurt contro Austria, ha evidenziato che, sebbene il momento e il luogo esatto di un’ aggressione non possano essere previsti, il comportamento dell’autore delle violenze potrebbe divenire più prevedibile in situazioni di chiara escalation, con un aumento della frequenza, dell’intensità e del pericolo della violenza nel tempo, affermando che le conoscenze generali e le ricerche specifiche disponibili sull’argomento andrebbero tenute in debito conto dalle autorità nel valutare il rischio di ulteriori aggressioni, anche dopo l’emissione di misure interdittive e di protezione. Alle autorità non può comunque essere imposto un onere impossibile o sproporzionato.
Nel caso in esame la Corte ha sottolineato, come fattore tra i più significativi, il fatto che anche le successive indagini interne svolte dalla polizia avessero evidenziato che a seguito della denuncia della sig.ra V. circa il possesso di un’ arma da parte del sig. V. nessuno abbia condotto alcuna indagine a tal riguardo, né sia stata stato adottato alcun provvedimento una volta trasmessa alla polizia la misura interdittiva nei confronti del sig. V. A tali omissioni investigative non avrebbero posto rimedio le autorità giudiziarie, che avrebbero concordato sull’archiviazione del caso solamente sulla base delle informazioni scritte della polizia, evidenziando anche una mancanza di coordinamento tra persone dello stesso ufficio incaricate in relazione a denunce diverse.
Inoltre la polizia non avrebbe prestato adeguata attenzione al rischio evidenziato dalla sig.ra V. il giorno della sua uccisione e il giorno prima, nelle denunce in cui riportava la violazione del divieto di avvicinamento da parte del sig. V. Le autorità contattate non avrebbero compreso il rischio immediato e reale per la vita della donna anche a causa della mancanza di formazione specifica degli operatori sulla violenza domestica.
Dunque, secondo la Corte, vi è stata una violazione dell’art. 2 CEDU da parte della Bulgaria.
Allo stesso tempo ha ritenuto che in questo caso non vi fossero elementi da cui desumersi anche una violazione dell’art. 14.
La Corte ha in primo luogo specificato che la doglianza relativa alla violazione dell’art. 14 (in combinato disposto con l’art. 2) è da considerarsi separato rispetto a quella riguardante la violazione dell’art. 2, e che dunque essa meriti un esame a parte. Tale rilievo non sembra del tutto scontato, tenuto conto che in altri casi, ad esempio nel recente A e B contro Georgia (si veda rassegna di febbraio 2022) la Corte ha invece esaminato doglianze analoghe solo sotto l’aspetto della violazione dell’art. 14 in combinato disposto con l’art. 2, ritenendo assorbita dalla violazione del divieto di discriminazione la violazione degli obblighi positivi previsti dall’art. 2.
Nel caso in esame, invece, la Corte ha ritenuto che non fossero riscontrabili gli elementi di una discriminazione basata sul sesso, già enunciati nel caso Volodina contro Russia (n. 41261/17 del 9 luglio 2019). In particolare in tale sentenza la Corte aveva, tra le altre cose, evidenziato che 1) una politica generale che ha l’effetto di creare pregiudizi sproporzionati nei confronti uno specifico gruppo può rappresentare una discriminazione anche se non è direttamente diretta a colpire tale gruppo e non vi è intento discriminatorio. 2) la violenza contro le donne, compresa la violenza domestica, è una forma di discriminazione contro le donne. La mancata protezione delle donne da tale violenza da parte dello Stato, a prescindere dalla sua intenzionalità, viola il diritto all’eguaglianza di fronte alla legge. 3) un trattamento differenziato che abbia lo scopo di assicurare l’eguaglianza sostanziale tra i sessi può essere giustificato, e può costituire perfino un obbligo per lo Stato.
Con riferimento all’onere la Corte ha ribadito che:
1) Una volta che i ricorrenti abbiano dimostrato una disparità di trattamento, spetta allo Stato convenuto dimostrare che tale disparità era giustificata. Se si riscontra, anche attraverso un principio di prova (prova prima facie) che la violenza domestica colpisce in modo sproporzionato le donne, l’onere si sposta sullo Stato in questione che deve dimostrare quali misure correttive abbia adottato per ridurre la disuguaglianza.
2) Le prove “prima facie” utili a spostare l’onere della prova sullo Stato convenuto sono atipiche. Possono provenire da rapporti di organizzazioni non governative o di osservatori internazionali come la CEDAW (Committee on the Elimination of Discrimination Against Women), o da dati statistici delle autorità o di istituzioni accademiche che dimostrano che (i) la violenza domestica colpisce principalmente le donne e che (ii) l’atteggiamento generale delle autorità ha creato un clima favorevole a tale violenza (ad esempio avendo riguardo del modo in cui le donne vengono trattate nelle stazioni di polizia quando denunciano la violenza domestica, o dell’inerzia nel fornire una protezione efficace alle donne che ne sono vittime).
3) Se viene dimostrata l’esistenza di un pregiudizio strutturale su larga scala non è necessario che i ricorrenti dimostrino che la vittima è stata anche oggetto di pregiudizi individuali. Se, al contrario, non ci sono prove sufficienti della natura discriminatoria della legislazione o delle prassi, o dei loro effetti discriminatori, la sussistenza di una discriminazione sarà legata alla dimostrazione di un pregiudizio da parte degli operatori che si sono occupati dello specifico caso della vittima in questione. In assenza di tale prova, il fatto che nella fattispecie non siano state adottate tutte le sanzioni o le misure raccomandate non è indice, di per sé, di un trattamento discriminatorio in base al sesso.
La Corte ha dunque affermato che nel caso di specie i ricorrenti non hanno prodotto prove che prima facie inducano a ritenere che l’inadempimento degli obbli di protezione rappresenti una discriminazione in base al sesso. E’ vero, ha rilevato la Corte, che la Bulgaria non tiene le statistiche raccomandate dal CEDAW sulla gestione dei casi di domestica violenza, e che in assenza di tali statistiche non può richiedersi ai ricorrenti di produrre loro stessi i dati rilevanti. Tuttavia gli stessi ricorrenti hanno prodotto dati statistici che non supportano le loro allegazioni, e che riguardano comunque un’area territoriale limitata. Dai rapporti di organismi internazionali non può desumersi l’atteggiamento minimizzante o di generale inerzia da parte delle autorità bulgare, né che la legge ponga dei concreti ostacoli alla denuncia delle violenze da parte delle donne. Allo stesso modo la mancata ratifica della convenzione di Istanbul da parte della Bulgaria non può considerarsi un elemento sufficiente a provare l’esistenza di un pregiudizio discriminatorio da parte di tale Stato nell’affrontare i casi di violenza domestica. Infatti, da una parte il rifiuto di ratificare la convenzione è avvenuto solo dopo l’omicidio della signora V., dall’altra le ragioni della mancata ratifica (evidenziate dalla Corte Costituzionale Bulgara) hanno riguardato considerazioni non correlate alla discriminazione, e non può dirsi che manifestino una riluttanza nel fornire alle donne gli strumenti legali necessari nella lotta contro la violenza domestica.
La Corte non ha neppure riscontrato che l’atteggiamento degli operatori che si sono specificamente occupati del caso della sig.ra V sia stato dettato da un pregiudizio nei confronti delle donne, manifestato attraverso un tentativo di dissuaderla dalla ricerca di protezione, nel porre concreti ostacoli ai suoi sforzi in tal senso, o nello sminuire la gravità delle minacce subite. L’inerzia manifestata dalle autorità, pur riprovevole e in violazione dell’art. 2 della Convenzione, non può essere considerata di per sé rivelatrice di un atteggiamento discriminatorio (anche tenuto conto delle indagini interne svolte dalla polizia dopo la morte della sig.ra V. e dall’inizio di azioni disciplinari, anche se non sono state fornite informazioni complete sulle sanzioni irrogate). Dunque, non è stata riscontrata alcuna violazione dell’art. 14 della Convenzione.
A.M. contro Norvegia (n. 30254/18), quinta sezione, 24 marzo 2022
Il caso in esame riguarda una coppia norvegese non sposata che, non riuscendo ad avere figli ha deciso di iniziare una procedura di maternità surrogata negli Stati Uniti. Successivamente la convivenza e la relazione tra i due partner è terminata, e nonostante ciò la coppia ha deciso di portare avanti la procedura di gestazione surrogata. I due hanno stipulato un accordo negli Stati Uniti, e sulla base di tale accordo il figlio nato da madre surrogata (rimasta incinta dopo la separazione della coppia) è stato registrato all’anagrafe americana come figlio di entrambi (l’uomo della coppia era anche donatore di sperma, mentre l’ovulo è stato donato da una terza sconosciuta).
Una volta ritornati in Norvegia l’uomo e la donna, pur riconoscendo di avere entrambi la responsabilità dell’educazione del bambino, non si sono accordati sulle modalità concrete di esercizio della genitorialità condivisa: il bambino viveva un giorno con uno e un giorno con l’altro e ciò è stato ritenuto nocivo per il minore da parte degli assistenti sociali (allertati dalla madre di lui), anche perché nel frattempo tra i due ex partners era aumentata la conflittualità. L’anagrafe norvegese si è rifiutata di riconoscere la donna come madre (e dunque di trascrivere il certificato di nascita americano per intero) riconoscendo solo l’uomo come padre (poiché padre biologico).
Non riuscendo a trovare col padre un accordo per la gestione del bambino la donna ha impugnato il diniego dell’anagrafe dinanzi al tribunale norvegese chiedendo in alternativa tre cose: il riconoscimento della propria maternità come da certificato di nascita americano, la possibilità di adozione del bambino, o il diritto di mantenere i contatti con il bambino.
In tre gradi di giudizio la sua domanda è stata respinta perché, si è detto, a) il primo punto sarebbe impedito dalla legge interna, poiché la ricorrente non è madre biologica, b) l’adozione richiederebbe necessariamente il consenso del padre, che nel caso non è stato dato, e c) anche il terzo punto sarebbe privo di base legale. Le Corti interne hanno inoltre esaminato la riconducibilità della questione all’ambito applicativo della “legge temporanea sulla gestazione surrogata”, una legge che è stata emanata in Norvegia per assicurare riconoscimento giuridico ai figli nati da coppie che hanno fatto ricorso alla gestazione surrogata all’estero in un momento nel quale non vi era stata chiarezza da parte delle autorità norvegesi sulle conseguenze che ne sarebbero derivate. Tuttavia, il caso in questione non rientrava nell’ambito temporale di applicabilità di tale legge, e le corti interne hanno escluso che dalla stessa legge si potesse desumere l’introduzione di un diritto generalizzato al riconoscimento della maternità in casi come quello in questione.
La donna ha dunque presentato ricorso presso la Corte Europea dei Diritti Umani lamentando la violazione dell’art. 8 CEDU (diritto al rispetto della vita privata e familiare) e dell’art. 14 (divieto di discriminazione).
Con riferimento all’art. 8 CEDU la Corte ha affrontato le seguenti questioni:
– se il mancato riconoscimento della maternità della ricorrente rappresenti un’interferenza prevista dalla legge, con un fine legittimo, e proporzionata rispetto ai diritti tutelati dall’art. 8;
– se la mancata possibilità di adottare il minore, in mancanza di consenso del padre, costituisca una mancanza di tutela da parte dello Stato dei diritti della ricorrente previsti dall’art. 8.
Non è stata invece esaminata la domanda relativa al diritto di visita, perché è emerso che su tale punto la ricorrente non avesse fatto ricorso alla Corte Suprema in Norvegia, quindi la domanda è stata considerata inammissibile sotto tale profilo per mancato esaurimento dei mezzi di ricorso interni.
La Corte ha affermato che la maternità surrogata solleva delle questioni etiche sulle quali non esiste un consenso tra gli stati Contraenti e sui quali gli stati hanno un ampio margine di apprezzamento (rilievo formulato più volte dalla Corte, ad esempio in Paradiso and Campanelli contro Italia, n. 25358/2012, sentenza del 27 gennaio 2015). Tenuto conto di ciò, la Corte non ha ritenuto che le norme di diritto interno applicate al caso in esame pongano problemi di conformità con l’art. 8 in termini generali, o che lo Stato sia stato inadempiente rispetto agli obblighi posti da tale norma per non aver riconosciuto la maternità della ricorrente sulla base degli accordi e del riconoscimento avvenuto negli USA.
Ha ritenuto inoltre che la richiesta del consenso dell’altro genitore per l’adozione di un minore, prevista dal diritto nazionale, non rappresenti un problema ai fini del diritto convenzionale.
Ha rilevato come la peculiarità del caso fosse rappresentata dal fatto che il padre (biologico) avesse prima prestato il proprio consenso a condividere la responsabilità genitoriale con la ricorrente, ponendo in essere un progetto genitoriale con lei, rifiutando però successivamente di prestare il consenso all’adozione. Tuttavia la Corte ha ritenuto “difficile attribuire queste conseguenze alle autorità. Non è stato un intervento dello Stato a porre fine alla relazione della ricorrente con il minore…e la Corte osserva che la Borgarting High Court [Corte di Appello norvegese] ha posto in essere un attento esame di quelli che sono i diritti della ricorrente ai sensi della Convenzione che eventualmente richiederebbero una disapplicazione della normativa nazionale nelle circostanze particolari del caso. In questo contesto ha esaminato la giurisprudenza rilevante della Corte…verificando se il migliore interesse del minore potesse portare ad una soluzione differente da quella che conseguirebbe all’applicazione della [normativa nazionale]. Ha concluso che il migliore interesse del minore non richiede che le domande della ricorrente siano accolte…e la Corte non ha alcun motivo per allontanarsi da tali conclusioni. “
La Corte ha quindi esaminato con attenzione le motivazioni espresse dai giudici nazionali nel respingere la domanda della ricorrente, rilevando come i diritti della ricorrente previsti dall’art. 8 (così come interpretato dalla giurisprudenza CEDU) fossero stati espressamente presi in considerazione dai tribunali interni, e siano stati oggetto di accurato bilanciamento rispetto agli interessi del minore.
La Corte ha anche esaminato la domanda in relazione all’art. 14 (divieto di discriminazione): in particolare la ricorrente aveva indicato come termini di comparazione i genitori ai quali era stata applicata la “legge temporanea sulla gestazione surrogata”, ed un altro caso in cui la Corte Suprema aveva permesso il riconoscimento del genitore non biologico e trascritto l’atto di nascita estero, allegando di aver subito una disparità di trattamento rispetto ad essi. La Corte EDU ha invece ritenuto che la sua situazione non potesse essere paragonata a quella di coloro ai quali è stata applicata la legge in questione, prevista per regolare situazioni di incertezza in un ambito temporale delimitato, né all’altro caso deciso dalla Corte Suprema, tenuto conto che i tribunali interni hanno rilevato i differenti elementi di fatto di quel caso (tra i quali il fatto che i genitori che avevano stipulato l’accordo all’estero fossero sposati e vivessero insieme) e che si trattasse di un caso giurisprudenziale isolato.
La Corte ha quindi ritenuto che non fossero stati violati i diritti della ricorrente né sotto il profilo dell’art. 8 né sotto il profilo dell’art. 14 CEDU.
Vool e Toomik c. Estonia (n. 7613/18 e n. 12222/18), terza sezione, 29 marzo 2022
I ricorrenti sono stati (in tempi e in procedimenti diversi) sottoposti alla misura della custodia cautelare in carcere con isolamento: la misura prevedeva restrizioni all’uso del telefono, alla corrispondenza e alle visite familiari. La misura dava atto del fatto che anche la comunicazione con i familiari avrebbe potuto provocare la fuga di notizie idonee a compromettere l’esito delle indagini. Dopo alcuni mesi in entrambi i casi le restrizioni sono state in parte revocate, permettendo visite brevi, la corrispondenza e chiamate telefoniche con i familiari più stretti (quali la partner convivente, genitori o fratello). Le richieste dei ricorrenti di essere autorizzati a delle visite più lunghe con i propri familiari è stata invece respinta dai giudici, poiché tale restrizione era prevista direttamente dalla legge con lo scopo di prevenire la commissione di ulteriori reati e l’alterazione delle prove.
I ricorrenti sono stati successivamente condannati (uno per estorsione e appartenenza alla criminalità organizzata, l’altro per narcotraffico) e dal momento della condanna uno dei due ha potuto chiedere l’autorizzazione a visite lunghe, poiché il divieto legislativo riguardava solo il periodo di detenzione cautelare, mentre all’altro sono state ancora negate.
La legge che prevede il divieto di colloqui lunghi per i detenuti sottoposti a misura cautelare è stata dichiarata incostituzionale in Estonia nel 2019 nella misura in cui non permette una valutazione nel caso specifico circa il pericolo di inquinamento delle indagini potenzialmente derivante dallo svolgimento di visite lunghe.
I ricorrenti hanno lamentato dinanzi alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo di aver sofferto di una violazione dei propri diritti ai sensi dell’art. 14 in connessione all’art. 8 CEDU, per essere stati discriminati, nel periodo in cui erano sottoposti alla misura della custodia cautelare, nella fruizione di colloqui con i familiari rispetto ai detenuti già condannati (i quali potevano richiedere visite lunghe).
La Corte ha in primo luogo affermato che i detenuti sottoposti a misura cautelare sono in una situazione significativamente simile a quella dei detenuti condannati. In secondo luogo ha esaminato se il diniego dei colloqui lunghi con i familiari, nel caso di ciascun ricorrente, fosse una misura proporzionata rispetto allo scopo di evitare un pregiudizio alle indagini in corso.
Ha ritenuto in entrambi i casi che non vi fosse proporzionalità, sia alla luce del fatto che il divieto di colloqui lunghi è durato per oltre due anni (in un caso) senza che vi sia stata una rivalutazione e una motivazione rafforzata delle ragioni per mantenere la restrizione nonostante il lungo decorso del tempo, sia perché le autorità interne non avrebbero motivato (nel secondo caso) come i colloqui con il partner avrebbero potuto essere di ostacolo alle indagini, tenuto conto che nel procedimento penale non era emerso alcun coinvolgimento del partner nelle attività criminali.
In conclusione, ha ritenuto che per entrambi i ricorrenti vi fosse stata una violazione dell’art. 14 in combinato disposto con l’art. 8 CEDU.
APRILE 2022
Il caso in esame riguarda il diniego, a partire dal 2018, del beneficio fiscale di esenzione dell’imposta sugli immobili previsto per legge in Belgio in favore di confessioni religiose “riconosciute”. Per le associazioni ricorrenti, nove congregazioni di Testimoni di Geova, tale criterio non è stato considerato soddisfatto.
La legge che ha introdotto il criterio contestato dalle associazioni ricorrenti è stata ritenuta conforme all’ordinamento interno dalla Corte Costituzionale belga, che lo ha ritenuto appropriato in funzione dell’obiettivo legittimo di combattere l’evasione fiscale. Lo ha ritenuto inoltre proporzionato, poiché le confessioni non riconosciute avrebbero sempre potuto chiedere il riconoscimento del proprio culto (posto che nel procedimento dinanzi alla Corte Costituzionale la procedura per il riconoscimento della religione da parte dello Stato non era stata oggetto di censure).
Dinanzi alla Corte di Strasburgo le ricorrenti hanno lamentato la violazione dell’art. 14 (divieto di discriminazione) in combinato disposto con gli articoli 9 (libertà di religione) e art. 1 protocollo 1 alla CEDU (diritto alla proprietà privata). Questi ultimi due articoli sono stati entrambi ritenuti applicabili dalla Corte al caso di specie, ed esaminati in relazione all’art. 14.
La Corte ha richiamato la necessità che lo Stato sia neutrale ed imparziale rispetto alle diverse religioni, culti e credenze (così anche in Magyar Keresztény Mennonita Egyház e altri contro Ungheria, n.70947/11) e che salvo casi eccezionali il diritto alla libertà di religione ai sensi della Convenzione esclude qualsiasi apprezzamento da parte dello Stato sulla legittimità delle credenze religiose o sulle modalità della loro espressione (Association Les Témoins de Jéhovah contro Francia, n. 8916/05, 30 giugno 2011). La libertà di religione garantita dall’art. 9 della Convenzione non obbliga lo Stato a creare uno statuto speciale per accordare privilegi particolari alle comunità religiose, ma lo Stato che decida di creare un tale statuto deve vigilare affinchè i criteri fissati per accedere ai benefici previsti non siano discriminatori.
Anche in questo caso la Corte ha richiamato i consolidati principi sull’ onere della prova in materia di discriminazione, affermando che spetta al ricorrente dimostrare una differenza di trattamento, e al Governo dimostrare che tale differenza è giustificata.
Nel caso in esame ha ritenuto che vi fosse stata una disparità di trattamento tra le associazioni ricorrenti, che utilizzavano gli immobili per il proprio culto, e le confessioni riconosciute, le quali potevano essere considerate in una situazione sufficientemente simile.
Lo scopo legittimo addotto dallo Stato per giustificare la misura, la prevenzione di frodi fiscali da parte di confessioni religiose fittizie, non è stato posto in discussione dalla Corte (pur rilevando che non vi è stato mai alcun sospetto di frode fiscale nei confronti delle associazioni ricorrenti). Anche il criterio oggettivo di riservare i benefici alle sole “religioni riconosciute” è stato ritenuto in astratto legittimo, ricadendo nell’ambito di apprezzamento dello Stato.
Tuttavia la Corte ha rilevato che il procedimento per ottenere il riconoscimento della religione da parte dello Stato non fosse effettivamente accessibile e sufficientemente prevedibile per le associazioni ricorrenti, che hanno dedotto l’incertezza della procedura: i criteri per il riconoscimento sarebbero stati del tutto vaghi, e mancherebbe qualsiasi garanzia procedurale, persino in termini di limiti temporali: difatti due richieste di riconoscimento del 2006 e del 2013 non sarebbero ancora state evase.
La Corte ha infine ritenuto che il procedimento per il riconoscimento, rimesso all’iniziativa del Ministro della Giustizia e dipendente dalle scelte del legislatore, non garantisse una valutazione obiettiva dell’istanza, e che non fosse quindi possibile richiedere alle comunità religiose che volessero beneficiare delle esenzioni fiscali di far ricorso ad un procedimento privo delle minime garanzie di equità.
Ha quindi ritenuto che l’accesso i benefici fiscali in oggetto sia subordinato ad un requisito – il riconoscimento della religione da parte dello Stato – il cui regime non offre sufficienti tutele contro il trattamento discriminatorio. La disparità di trattamento subita dalle associazioni ricorrenti non può quindi considerarsi fondata su una giustificazione obiettiva e ragionevole.
In questo caso la Corte ha ritenuto che non fosse necessario esaminare separatamente le doglianze sotto il profilo dell’art. 9 e dell’art. 1 protocollo 1, ed ha riscontrato una violazione dell’art. 14 in combinato disposto con entrambi i due articoli citati.
Landi c. Italia (n. 10929/19), prima sezione, 7 aprile 2022
Nel caso in esame la Corte si è pronunciata sul ricorso di una donna che ha lamentato l’inerzia delle autorità italiane nel proteggere lei e i suoi figli dalla violenza domestica inflitta loro dal suo compagno per diversi anni, che ha avuto come epilogo il tentato omicidio della ricorrente e l’omicidio del loro figlio di un anno nel 2018.
La ricorrente ha dedotto di aver subito, tra il 2015 e il 2018, plurime aggressioni da parte di N.P:, con il quale aveva avuto una prima figlia nel 2011.
Il 20 novembre 2015, a seguito di violente aggressioni fisiche e verbali e minacce di morte ha sporto una prima denuncia ai carabinieri, informandoli che il suo compagno subiva di un disturbo bipolare e che aveva anche in passato tenuto spesso dei comportamenti violenti. Mentre si trovava in caserma per la denuncia il compagno l’ha raggiunta aggredendola verbalmente alla presenza dei Carabinieri, che hanno condotto l’uomo in ospedale. I medici hanno escluso di sottoporlo ad un trattamento sanitario obbligatorio ritenendolo non pericoloso, e l’uomo ha lasciato l’ospedale recandosi presso l’abitazione della madre, dove la ricorrente si era nel frattempo rifugiata con i figli. L’uomo ha tentato di convincerla a tornare presso la casa familiare, ma al rifiuto di lei si è messo a gridare e a dare calci all’automobile prima di tornare, da solo, a casa. I carabinieri hanno trasmesso due giorni dopo la querela della ricorrente alla Procura, rappresentando tra l’altro che l’uomo era già stato indagato per fatti analoghi nel 2010 a seguito della denuncia della sua ex compagna, ed era stato destinatario di un divieto di avvicinamento. Per quattro mesi non è stato assunto alcun provvedimento e la procura non ha chiesto l’applicazione di alcuna misura cautelare. Il 3 marzo la ricorrente ha ritirato la querela, ritenendo che il compagno stesse meglio grazie ad una terapia psichiatrica, e l’11 maggio il caso è stato archiviato.
Il primo settembre 2018 è nato il secondo figlio della coppia, il 3 settembre la donna ha allertato nuovamente i carabinieri poiché N.P., svegliandosi in mezzo alla notte e non trovandola (la donna si era recata all’ospedale con il neonato), si era messo a gridare e aveva svegliato la prima figlia, chiamando la ricorrente molto agitato. I carabinieri, intervenendo, hanno trovato N.P. molto agitato, ma la ricorrente ha dichiarato di non voler sporgere denuncia.
A dicembre 2017 i carabinieri sono intervenuti a seguito di una violenta lite in strada con la ricorrente, N.P. ha rifiutato di dare le proprie generalità e il rapporto è stato inviato all’autorità giudiziaria.
Il 22 febbraio 2018 la ricorrente ha nuovamente chiesto l’intervento dei Carabinieri, perché N.P. le aveva sferrato una testata sul viso facendola sanguinare e aveva avuto comportamenti autolesionistici. Alla presenza dei carabinieri N.P. ha tentato di impossessarsi della pistola di uno di essi. E’ stato portato in ospedale dove è stato ricoverato, e il giorno successivo la ricorrente ha sporto denuncia dichiarando di aver subito, accanto alle violenze, numerosi insulti e minacce, comprese minacce di morte riguardanti lei ed i bambini. Anche il servizio psichiatrico presso il quale era stato ricoverato N.P. ha riferito nello stesso giorno che dai colloqui con la famiglia erano emersi numerosi episodi di maltrattamenti e violenza domestica.
Pochi giorni dopo, il 28 febbraio 2018, dopo che N.P. era stato dimesso dall’ospedale, la ricorrente ha ritirato la querela.
Il 2 marzo 2018 i carabinieri hanno comunicato alla Procura di Firenze il ritiro della querela, riepilogando gli interventi dal 2015, e chiedendo al p.m. di valutare la richiesta di una misura cautelare a protezione della sig.ra Landi e dei figli minori, tenuto conto “che non si può escludere un reiterarsi delle condotte violente”, in corso da anni “e che, come detto, periodicamente vengono rimesse in atto”. N.P. è stato sottoposto ad indagini per maltrattamenti in famiglia (art. 572 c.p.) ma non è stata emessa alcuna misura cautelare. Nel frattempo, ad aprile 2018, N.P. è tornato a vivere in famiglia (a detta della ricorrente, il medico che aveva in cura N.P. aveva raccomandato una riunione della coppia a supporto della terapia).
Il 25 luglio è stata redatta una perizia psichiatrica da cui è emerso che sebbene la personalità di N.P. rivelasse un disturbo del controllo degli impulsi e un disturbo bipolare, lo stesso non presentava alcuna manifestazione psicotica al momento dei fatti. Aveva comunque dei disturbi che ne determinavano la pericolosità sociale.
Il 14 settembre 2018, in un ennesimo attacco di agitazione ed ira, N.P. ha aggredito la ricorrente con un coltello ferendola su viso e corpo, ed ha inferto diverse coltellate sul bambino più piccolo causandone la morte. E’ stato condannato in primo grado alla pena di venti anni di reclusione e al pagamento di una provvisionale in favore delle parti civili di 100.000 euro.
Dinanzi alla Corte Europea dei Diritti Umani la ricorrente ha lamentato che, in relazione ai fatti sopra descritti, le autorità nazionali abbiano omesso di adottare tutte le misure necessarie a proteggere la sua vita e quella di suo figlio, in violazione dell’art. 2 CEDU.
Ha inoltre dedotto la violazione dell’art. 14 della Convenzione in combinato disposto con l’articolo 2, sostenendo che sia l’inadeguatezza legislativa sia la mancanza di risposta adeguata da parte delle autorità alle sue denunce costituissero un trattamento discriminatorio fondato sul sesso.
Il Governo ha eccepito preliminarmente che la ricorrente non avesse esaurito le vie di ricorso interne, da un lato perché non avrebbe chiesto ai tribunali interni di valutare la violazione dei suoi diritti tutelati dalla convenzione, dall’altra perché ha ritirato più volte le querele presentate, non si è opposta all’archiviazione della denuncia presentata nel 2015 e non ha richiesto al giudice civile delle misure di protezione (articoli 342 bis e 342 ter c.c.).
La Corte ha rilevato, con riferimento al primo profilo, che la costituzione di parte civile nel procedimento penale ai fini di ottenere un risarcimento dei danni è volta a porre rimedio a violazioni già commesse, ma non idoneo ad impedirne di future (secondo la distinzione enunciata in Kurt c. Austria [GC], n. 62903/15, 15 giugno 2021), e non sarebbe idonea ad offrire una riparazione per la violazione dell’art. 2 della Convenzione da parte dello Stato, in particolare da parte dell’apparato giudiziario. La Corte ha pure ricordato che il GREVIO (Groupe d’experts sur la lutte contre la violence à l’égard des femmes et la violence domestique, presso il Consiglio d’Europa), nel suo rapporto sull’Italia del 3 gennaio 2020, ha riscontrato un vuoto legislativo rispetto alla possibilità di promuovere ricorsi civili effettivi contro qualsiasi autorità statale che non adotti le misure di prevenzione o protezione necessarie in materia di violenza domestica, evidenziando che dunque la ricorrente non disponesse di un ricorso in ambito civile per far valere l’inadempimento dello Stato. Quanto al secondo profilo (remissione delle querele), la Corte ha ritenuto che esso attenesse al merito della controversia e non riguardasse l’esperimento di rimedi effettivi, concernendo la capacità del quadro giuridico di assicurare una protezione sufficiente alla ricorrente e ai suoi figli.
Nel merito la Corte ha richiamato, anche in questo caso, i principi enunciati nella sentenza Kurt c. Austria relativi alla necessità di reazione immediata rispetto alle denunce di violenza domestica, di una valutazione del rischio autonoma, proattiva ed esaustiva, e di adozione di misure preventive adeguate e proporzionate al livello di rischio rilevato.
Nel caso in esame ha ritenuto che, sebbene una simile valutazione fosse stata fatta dai carabinieri che avevano ricevuto le denunce ed erano intervenuti a seguito di chiamata, indipendentemente dalla denuncia della ricorrente, tenendo debitamente conto del contesto particolare delle cause in materia di violenza domestica, e chiedendo delle misure cautelari, l’autorità giudiziaria non ha reagito in maniera altrettanto diligente e non ha posto in essere una reazione immediata.
Al di fuori delle proposte dei carabinieri alla procura, infatti, le autorità competenti non hanno condotto né un’azione autonoma e proattiva, né una valutazione completa dei rischi, né hanno preso coscienza del carattere e della dinamica specifici della violenza domestica, considerando in particolare l’escalation delle violenze subite dalla ricorrente (e dai suoi figli), le minacce proferite, le aggressioni ripetute, nonché la malattia mentale di N.P.
Una valutazione del rischio sulla base delle informazioni esistenti avrebbe giustificato misure preventive, anche alternative quali coinvolgimento dei servizi sociali e psicologi, e collocazione della ricorrente e i suoi figli in un centro antiviolenza. In conclusione secondo la Corte le autorità non hanno dimostrato la diligenza richiesta e si sono quindi sottratte all’obbligo positivo, derivante dall’articolo 2, di proteggere la vita della ricorrente e quella di suo figlio.
La Corte non ha invece riscontrato una violazione del divieto di discriminazione previsto dall’art. 14 in combinato con l’art. 2.
Preliminarmente ha richiamato ancora una volta i principi in materia di onere probatorio con riferimento alla prova della discriminazione nei casi di violenza domestica, quando se ne lamenta la natura di trattamento discriminatorio in base al sesso.
Anche in questo caso la Corte ha rammentato che:
1) Una volta che i ricorrenti abbiano dimostrato una disparità di trattamento, spetta allo Stato convenuto dimostrare che tale disparità è giustificata. Se si riscontra che la violenza domestica colpisce in modo sproporzionato le donne, l’onere si sposta sullo Stato in questione che deve dimostrare quali misure correttive abbia adottato per ridurre la disuguaglianza.
2) Le prove “prima facie” utili a spostare l’onere della prova sullo Stato convenuto sono atipiche. Possono provenire da rapporti di organizzazioni non governative o di osservatori internazionali come il CEDAW (Committee on Elimination of Discrimination Against Women presso le Nazioni Unite) o da dati statistici delle autorità o di istituzioni accademiche che dimostrino che (i) la violenza domestica colpisce principalmente le donne e che (ii) l’atteggiamento generale delle autorità ha creato un clima favorevole a tale violenza (ad esempio, avuto riguardo del modo in cui le donne vengono trattate nelle stazioni di polizia quando denunciano la violenza domestica, o dell’inerzia nel fornire una protezione efficace alle donne che ne sono vittime).
3) Se viene dimostrata l’esistenza di un pregiudizio strutturale su larga scala, non è necessario che i ricorrenti dimostrino che la vittima è stata anche oggetto di pregiudizi individuali. Se, al contrario, non ci sono prove sufficienti della natura discriminatoria della legislazione o delle prassi, o dei loro effetti discriminatori, la sussistenza di una discriminazione sarà legata alla dimostrazione di un pregiudizio da parte degli operatori che si sono occupati del caso della vittima. In assenza di tale prova, il fatto che nella fattispecie non siano state adottate tutte le sanzioni o le misure raccomandate non è indice, di per sé, di un trattamento discriminatorio in base al sesso.
Nel caso in esame la Corte ha ritenuto imputabile la violazione dell’art. 2 all’inerzia della procura, ma non ha riscontrato un problema generalizzato di efficacia della tutela delle donne contro la violenza di genere, come invece era accaduto con la sentenza Talpis c. Italia (n. 41237/14, 2 marzo 2017). In quel caso la Corte, anche sulla base di dati statistici ISTAT del 2014, aveva rilevato una “passività generalizzata e discriminatoria” delle autorità idonea a tollerare un “clima favorevole alla violenza”.
In questo caso invece ha preso atto del fatto che “a partire dal 2017, e dall’adozione della sentenza Talpis sopra citata, l’Italia ha adottato delle misure per mettere in atto la Convenzione di Istanbul, dimostrando in tal modo la sua volontà politica reale di prevenire e combattere la violenza nei confronti delle donne. Come sottolinea il Governo, una serie di riforme legislative già adottate a partire dal 2008 (in particolare l’introduzione di misure di protezione contro gli abusi familiari, del reato di molestie, di circostanze aggravanti per i reati contro le persone e i minori, della misura dell’allontanamento d’urgenza dal domicilio familiare) ha creato un insieme importante di regole e di meccanismi che rafforzano la capacità delle autorità di far corrispondere le loro intenzioni ad azioni concrete per porre fine alla violenza (si veda il rapporto del GREVIO del 2020 citato nel paragrafo 54 supra). Successivamente sono state adottate altre misure legislative in materia penale e civile (si vedano i paragrafi 47-49 supra)”.
Ha inoltre precisato che la ricorrente non ha fornito sufficienti elementi (dati statistici o osservazioni di organizzazioni non governative) idonei a fondare una prova prima facie relativa ad una passività generalizzata della giustizia di fronte alla violenza domestica, né che vi sia stato un comportamento da parte della polizia, nello specifico caso, volto a dissuadere la donna dal ricercare protezione (al contrario, la pericolosità della situazione è stata riportata alla procura, nonostante la donna avesse ritirato la querela).
Non sono stati riscontrati elementi da cui possa desumersi che le omissioni nel caso di specie siano state la conseguenza di un trattamento discriminatorio nei confronti dell’interessata.
Le carenze evidenziate, pur derivate da una grave passività da parte delle autorità giudiziarie, e contrarie all’articolo 2 della Convenzione, non sono state quindi considerate indicative di un atteggiamento discriminatorio basato sul sesso.
Emanuela Vitello, magistrata ordinaria del Tribunale di Civitavecchia, attualmente presso la Cancelleria della Corte Europea dei Diritti Umani per lo svolgimento del programma annuale di scambio EJTN.