More on the dismissal of a disabled worker by reason of absences resulting from illnesses
In questo contributo l’A. analizza la decisione del Tribunale di Lecco, che ha ritenuto discriminatorio il licenziamento del lavoratore disabile per superamento del periodo di comporto. Secondo il giudice, le assenze del lavoratore dovute a disabilità non devono essere computate nel periodo di comporto anche quando questo è stabilito in misura prolungata per i lavoratori affetti da patologie gravi. L’A. dà altresì conto di alcune recenti decisioni dei giudici di merito che si sono espressi sostanzialmente nello stesso senso sulle medesime questioni.
In this contribution, the author analyses the decision of the Tribunal of Lecco, which held that the dismissal of a disabled worker for exceeding the period of sick leave was discriminatory. According to the judge, the worker’s absences due to disability should not be counted in the sick leave period even when this is established to a prolonged extent for workers suffering from serious pathologies. The author also gives an account of some recent decisions of the judges on the merits that have ruled substantially in the same sense on the same issues.
Si ritiene opportuno tornare sulla questione, di cui questo sito si è già occupato recentemente[1], dei criteri di calcolo del periodo di comporto da applicarsi in caso di disabilità del lavoratore perché alcune recenti decisioni, e, in particolare quella del Tribunale di Lecco[2], aggiungono ulteriori elementi al quadro giurisprudenziale, negli ultimi anni in rapida evoluzione. La decisione del Trib. Lecco merita attenzione sia per le novità in essa contenute relative ad aspetti sostanziali, sia per profili di carattere processuale, per l’analisi dei quali si rinvia al contributo di Laura Curcio, pubblicato su questo sito. Il caso riguarda un lavoratore divenuto inidoneo alle proprie mansioni di autista a causa di una patologia cardiaca che lo aveva costretto a un intervento chirurgico e successivamente a numerose assenze dal lavoro. Il lavoratore era stato dichiarato temporaneamente inidoneo alle proprie mansioni dal medico competente, giudizio che in sede di ricorso era stato corretto in inidoneità allo svolgimento delle mansioni di autista senza controindicazioni per lo svolgimento di mansioni alternative. Lo stesso, durante l’assenza era stato riconosciuto invalido al 67% ex l. n. 104/92. L’azienda, dopo aver atteso la revisione del giudizio del medico competente per riammetterlo al lavoro, e dopo aver rifiutato di concedergli l’aspettativa non retribuita, anch’essa prevista dal contratto collettivo e, dopo numerose sollecitazioni e richieste del lavoratore, lo spostava a mansioni di addetto alle pulizie. A questo punto, lamentando l’incompatibilità delle nuove mansioni con il suo stato di salute e indicando all’azienda altre mansioni in cui avrebbe potuto essere utilmente impiegato, il lavoratore rimaneva ancora assente dal lavoro. L’azienda, applicando il periodo di comporto prolungato fino a 30 mesi previsto dal Ccnl per malattia grave certificata (di cui gli ultimi 12 comunque non retribuiti), una volta superato questo, procedeva al licenziamento. Il lavoratore dunque ricorreva in giudizio lamentando sia la discriminazione diretta consistente nel rifiuto di accomodamenti ragionevoli, nel caso di specie l’adibizione ad altre mansioni compatibili con lo stato di salute, sia la discriminazione indiretta per aver il datore di lavoro calcolato nel periodo in comporto anche le assenze connesse allo stato di disabilità.
Il giudice, anzitutto, ribadisce in linea con un orientamento ormai costante della giurisprudenza[3], che la nozione di disabilità rilevante ai fini dell’applicazione delle tutele antidiscriminatorie va desunta dalla convenzione Onu sui diritti delle persone con disabilità del 2006 e dalla giurisprudenza della Corte di giustizia Ue, che a partire dal noto caso HK Danmark afferma che la nozione di disabilità include una “condizione patologica causata da una malattia diagnosticata come curabile o incurabile, qualora tale malattia comporti una limitazione, risultante in particolare da menomazioni fisiche, mentali o psichiche, che, in interazione con barriere di diversa natura, possa ostacolare la piena ed effettiva partecipazione della persona interessata alla vita professionale su base di uguaglianza con gli altri lavoratori, e tale limitazione sia di lunga durata»[4]. Il Tribunale, inoltre, si allinea all’orientamento secondo il quale l’applicazione dello stesso periodo di comporto costituisce discriminazione indiretta, in quanto tratta allo stesso modo sulla base di un criterio apparentemente neutro abili e disabili[5], affermando altresì che il divieto opera oggettivamente a prescindere dall’intento lesivo. Pertanto, per evitare di incorrere nella fattispecie discriminatoria il datore di lavoro deve adottare le misure adeguate per ovviare agli svantaggi provocati dall’utilizzo dello stesso periodo di comporto; misure riconducibili all’obbligo di accomodamenti ragionevoli, nella fattispecie consistenti nello scomputo delle assenze causate dalla disabilità.
La sentenza mette in luce alcune questioni che riteniamo importante segnalare. La prima, che pure non è affrontata espressamente dal giudice, ma che si evidenzia nel caso di specie e che comunque è assai frequente, attiene alla stretta correlazione esistente tra la discriminazione consistente nel rifiuto di adottare misure organizzative o logistiche o altri accomodamenti ragionevoli volti a consentire al lavoratore di proseguire l’attività lavorativa e il conseguente licenziamento del lavoratore dovuto alle assenze per malattia. Se l’applicazione dell’ordinario periodo di comporto costituisce, secondo un orientamento che va consolidandosi, discriminazione indiretta e se la necessità di adattamento di detto periodo è riconducibile essa stessa all’obbligo di adottare accomodamenti ragionevoli, ciò non toglie che il primo inadempimento del datore di lavoro, antecedente al prolungamento delle assenze, debba assumere rilevanza anche ai fini della esatta qualificazione del successivo licenziamento. La questione è strettamente legata al secondo più rilevante aspetto innovativo della sentenza del Tribunale di Lecco, attinente alle modalità con cui si adatta il periodo di comporto al caso della disabilità. In particolare, il giudice ritiene che l’accomodamento ragionevole implichi la necessità di sottrarre dal calcolo i giorni di malattia ascrivibili alla disabilità e al contempo ritiene non sufficiente da parte del datore di lavoro l’applicazione del solo allungamento del periodo di comporto, pure previsto dal contratto collettivo. Il punto è significativo perché, da un punto di vista generale e astratto, la previsione di un periodo di comporto più lungo a fronte di patologie gravi (nel caso di specie si trattava di un allungamento del diritto alla conservazione del posto, ma non alla retribuzione, fino a 30 mesi seguito dalla possibilità di richiedere una ulteriore aspettativa non retribuita) parrebbe a prima vista di per sé realizzare quel bilanciamento tra esigenze dell’impresa ed esigenze di tutela del lavoratore cui è sottesa anche la previsione degli accomodamenti ragionevoli[6]. Tuttavia, al di là della circostanza del caso concreto per cui il datore di lavoro aveva rifiutato di concedere al lavoratore l’aspettativa non retribuita, l’estensione del periodo di comporto anche oltre il limite già prolungato previsto dal contratto collettivo e/o l’applicazione di criteri di calcolo adattati alla condizione di disabilità è conclusione del tutto coerente con l’elaborazione dottrinale e giurisprudenziale relativa alla nozione di accomodamento ragionevole. Anzitutto perché l’obbligo datoriale di adattamento ha contenuto variabile, definito sartoriale, che va individuato caso per caso, mentre la previsione dell’allungamento del diritto alla conservazione del posto stabilita dal contratto collettivo, peraltro a fronte di patologie sia pure largamente ma non tutte e non necessariamente e riferibili alla disabilità, è stabilita in modo uniforme per tutti i lavoratori. In secondo luogo, perché la Corte di giustizia Ue ha chiaramente affermato che la valutazione circa la proporzionalità dell’accomodamento ragionevole rispetto al sacrificio richiesto al datore di lavoro va effettuata prendendo in considerazione tutti gli elementi pertinenti ai fini di tale verifica, in particolare i costi diretti e indiretti che le imprese devono sostenere a causa dell’assenteismo sul lavoro, ovvero i costi dell’indennità corrisposte dal datore di lavoro e quelli relativi alle necessità di sostituzione del lavoratore assente. In tale valutazione occorre altresì considerare se la normativa nazionale preveda lo scomputo, o criteri di comporto diversi per determinate patologie o altre cause di assenza. Solo all’esito di tale valutazione si può procedere al bilanciamento degli interessi in gioco, senza ignorare il rischio cui sono soggette le persone disabili, le quali, in generale, incontrano maggiori difficoltà rispetto ai lavoratori non disabili a reinserirsi nel mercato del lavoro e hanno esigenze specifiche connesse alla loro condizione[7]. Analoghe considerazioni sono già emerse in alcune decisioni di merito. In particolare la Corte d’Appello di Genova, rilevando come la contrattazione collettiva si sia evoluta nel tempo introducendo rilevanti differenziazioni nella durata del comporto in relazione a diverse gravi patologie, ed escludendo dal computo le assenze per cure in day hospital, ricoveri e terapie salvavita, ha rilevato l’incongruità dell’esclusione, dalla deroga al calcolo del periodo di comporto, dei casi di assenze dei lavoratori per malattie connesse a disabilità, così come definita dal diritto europeo[8]. Il Tribunale di Verona ha inoltre ritenuto che l’esclusione da parte dei contratti collettivi dei giorni di permesso ex art. 33, l. n. 104/92 e per terapie non sia sufficiente per poter escludere il rischio di una ingiustificata disparità di trattamento, in ragione del limitato ambito di applicazione di tali disposizioni rispetto all’ampia nozione di disabilità derivante dalla normativa europea. In tale occasione i giudici hanno altresì osservato come la conservazione del posto di lavoro non costituisca un onere sproporzionato, in quanto il datore di lavoro ha a disposizione una serie di misure e sostegni per poterlo sopportare, potendo egli inoltre controllare in modo costante l’idoneità alle mansioni del lavoratore [9]. Da ultimo, la Corte d’appello di Milano ha ritenuto indirettamente discriminatorio l’art. 51 Ccnl Multiservizi in quanto, non prevedendo alcuno specifico contemperamento perequativo del periodo di comporto a tutela della specifica posizione del disabile[10].
Lo scomputo delle assenze dal calcolo per comporto, quindi, e non il suo allungamento, sembra tendenzialmente costituire per i giudici l’accomodamento più ragionevole. Ciò anche perché l’applicazione di un comporto uniforme, ancorché prolungato, rischia di inficiare la valutazione di tutti gli elementi da prendere in considerazione ai fini della verifica della giustificatezza del licenziamento. In tale operazione infatti non si potrà non tener conto del principio generale che impedisce alla parte che intende recedere dal contratto di fondare le proprie pretese su fatti e circostanze causati dal proprio inadempimento contrattuale. Tale principio è infatti all’origine di diverse specifiche disposizioni normative. Tra queste si ricorda, anzitutto, per affinità, la previsione frequente nella contrattazione collettiva dell’esclusione dal calcolo del periodo di comporto dell’assenze dovute infortuni sul lavoro e malattie professionali. Ma va altresì ricordato che all’origine del diritto del lavoratore divenuto idoneo all’assegnazione a diverse mansioni, anche inferiori, riconosciuto oggi a favore di tutti i lavoratori dall’art. 42 d. lgs.81/08 e riconosciuto a favore dei lavoratori avviati obbligatoriamente sulla base della l. n. 68/99 vi è un risalente e consolidato orientamento giurisprudenziale in base al quale salvo il caso di totale inabilità, l’inidoneità parziale determinata dalla violazione delle norme in materia di salute sicurezza sul lavoro non può dar luogo a licenziamento[11]. Uno stretto collegamento sussiste infatti tra le problematiche connesse a disabilità e la normativa in materia di tutela della salute e sicurezza sul lavoro, che annovera tra i suoi principi generali quello di adattare il lavoro all’uomo, disposizione che, se non vuole essere intesa come mera affermazione di principio, esige che sia interpretata in senso specifico, riferita cioè alle condizioni dei singoli lavoratori[12]. In questo senso dispone del resto anche la previsione dell’obbligo del datore di lavoro di tenere conto nell’affidamento dei compiti ai lavoratori «delle capacità e delle condizioni degli stessi». Nel caso del licenziamento del lavoratore disabile per superamento del periodo di comporto, quindi, non si potrà non tener conto anche dell’eventuale antecedente rifiuto del datore di lavoro di adottare quegli accomodamenti che sarebbero stati necessari, non per la conservazione del posto durante le assenze, ma, prima ancora, per consentire al lavoratore di non assentarsi. Va da sé che ciò non significa presupporre che il prolungamento delle assenze del lavoratore disabile sia sempre imputabile al datore di lavoro, ma che si debbano valutare caso per caso le circostanze per cui si è prolungata l’assenza e se parte del prolungamento non dipenda da inadempimento agli specifici obblighi di accomodamenti ragionevoli e, altresì, di sicurezza del datore di lavoro[13].
Per altro verso, ci si chiede se, a prescindere da ogni accertamento circa la condizione pregressa del lavoratore, il superamento del periodo di comporto non sia già di per sé sintomo rivelatore della sussistenza di una patologia duratura (con tutte le incertezze che connotano detta caratteristica) tale da giustificare, secondo i correttezza e buona fede, l’attivazione del datore di lavoro al fine di verificare se sussistano le condizioni in relazione alle quali sorge l’obbligo di accomodamento ragionevole. Si tratta invero di un obbligo diverso rispetto alla comunicazione al lavoratore dell’approssimarsi del superamento del periodo di comporto, non riconosciuto dall’orientamento prevalente in giurisprudenza[14]. È pur vero che la Corte di giustizia ha più volte escluso l’assimilazione tra le fattispecie disabilità e malattia, affermando chiaramente che sia da escludere che i lavoratori siano tutelati dal divieto di discriminazione per handicap non appena si manifesti una qualsiasi malattia[15] ma essa ha altresì precisato che la durevolezza della menomazione o della patologia che riduce la capacità lavorativa non deve essere necessariamente essere predeterminata, né può essere valutata ex post, dovendosi invece fare riferimento al fatto che all’epoca del fatto asseritamente discriminatorio, la menomazione dell’interessato non presentasse una prospettiva ben delimitata di superamento nel breve periodo o al fatto che tale menomazione potesse protrarsi in modo rilevante prima della guarigione di tale persona[16].
Infine, è utile segnalare come la sentenza del Tribunale di Lecco si allinei altresì all’orientamento che ritiene irrilevante il fatto che il datore di lavoro fosse o meno a conoscenza della riconducibilità delle assenze del lavoratore al suo stato di disabilità. I giudici hanno individuato più di una ragione a sostegno di detta interpretazione. La prima e più rilevante è costituita dal carattere oggettivo della discriminazione vietata, che opera, a prescindere dal suo intento, a protezione della persona disabile e non a fini sanzionatori del comportamento[17]. Sebbene in alcuni casi si sia ritenuto che per configurare un obbligo di scomputo delle assenze connesse a disabilità occorrerebbe ritenere sussistente il correlativo onere di comunicazione del lavoratore[18], l’orientamento prevalente ritiene che un simile onere si tradurrebbe in una surrettizia limitazione del divieto di discriminazioni. In alcuni casi, si è altresì osservato come, pur non conoscendo le ragioni delle singole assenze, il datore di lavoro fosse comunque a conoscenza della situazione di rischio disabilità del lavoratore[19]. Irrilevante è stato poi considerato il fatto che sui certificati medici non fossero barrate le caselle terapie salvavita o patologie connesse all’invalidità[20], sia in quanto la mancata indicazione da parte del medico sul certificato di malattia della connessione con lo stato di disabilità ex l. 104/92 o di patologia grave è fatto sul quale il lavoratore non ha controllo e non modifica la situazione sfavorevole oggettiva in cui egli si trova, sia in quanto secondo i canoni di correttezza e buona fede il datore di lavoro avrebbe potuto, prima di irrogare il licenziamento, attivarsi chiedendo al lavoratore di fornire la necessaria documentazione, sia, infine, in quanto il datore di lavoro ha facoltà di revocare il licenziamento.
Olivia Bonardi
Prof.ssa di diritto del lavoro dell’Università degli studi di Milano
[1] R. Bono, Disabilità e licenziamento discriminatorio per superamento del periodo di comporto.
[2] Trib. Lecco, 26 luglio 2022
[3] L’adattamento del periodo di comporto è stato riconosciuto dalla giurisprudenza anzitutto a favore dei lavoratori assunti ex l. n. 68/99 e in seguito esteso a tutte le condizioni di disabilità riconducibili alla definizione data dalla Convenzione Onu del 2006, così come interpretata dalla Corte di giustizia Ue. Per l’applicazione di detto principio alle assunzioni ex. L. n. 68/99 v. T. Milano, 28 .10.2016, RGL, 2017, II, 47; per la successiva estensione v. T. Catanzaro 21.05.2021, n. 349, (link), T. Roma 8.05.2018, n. 508 (link). Trib. Milano 24.09.2018; Trib. S. Maria Capua Vetere, 11.08.2019, Corte App. Genova, 21.07.2020; Corte App. Firenze, 26.10.2021; Corte App. Milano 1.12.2022.
[4] Corte giust. 11.04.2013, HK Danmark, C-335/11 e C-337/11, e nello stesso senso Corte giust. 09.03.2017, C-406/15, Milkova; Corte giust.18.01.2018, C-270/16, Ruiz Conejero; Corte giust. 10.02.2022, C-485/20, HR Rail Sa.
[5] Contra: Trib. Lodi, 12/09/2022, n.19; Trib. Como 17.09.2020
[6] In questo senso v. Corte App. Torino, 26.10.2021
[7] Cgue, 18 gennaio 2018, C- 270/16 Carlos Enrique Conejero
[8] Corte App. Genova 21 luglio 2021, n. 211
[9] Contra v. però Corte App. Torino 26 ottobre 2021, n. 604)
[10] Corte App. Milano, 1.12.2022
[11] V. Cass. 27.06.2017, n. 15972 e da ultimo Trib. Bolzano 20.01.22, n. 18, in de Jure, Trib. Cassino, 20.10.2022, n. 802; Trib. Firenze sez. lav., 18/06/2021, n.478, in De jure
[12] Nel senso che la valutazione dei rischi deve essere individualizzata, cioè tenere conto delle specifiche condizioni del singolo Cgue 19 ottobre 2017, Ramos, C-531/15, riferita peraltro a un caso di lavoratrice in stato di gravidanza e sul tema si v. anche Cgue, 11 settembre 2019, C- 397/18, Plastiques Ibérica SA.
[13] Nel senso che l’adozione di a.r. è presupposto della legittimità del licenziamento Corte giust. 11.04.2013, HK Danmark, C-335/11 e C-337/11, Corte giust., 10 febbraio 2022, C-485/20, HR Rail Sa, Trib. Catanzaro, 21 maggio 2021, n. 349
[14] V. da ultimo Corte App. Salerno, sez. lav., 12/07/2022, n.448
[15] Corte giust.18.01.2018, C-270/16, Ruiz Conejero
[16] Corte giust., 1.12. 2016, C-395/15, Mo. Da.
[17] Corte app. Milano, 1.12.2022
[18] Corte App. Torino, 26.10.2021
[19] Corte App. Firenze 26.10.2021, Trib. Roma, 8.05.2018; Trib. Verona, 21.03.2021
[20] Trib. Verona, 21.03.2021