UK Supreme Court clarifies operation of the burden of proof in equality act claims
Nella sentenza Royal Mail Group Ltd (Respondent) v Efobi (Appellant) 23 luglio 2021 la Supreme Court UK si è pronunciata unanimemente circa la corretta interpretazione del testo modificato della normativa di attuazione delle direttive europee in materia di antidiscriminazione, l’Equality Act 2010, con riferimento alla ripartizione degli oneri di prova nelle cause di lavoro e ha precisato e ribadito alcuni principi in materia.
In its decision Royal Mail Group v Efobi of July 23rd 2021, the UK Supreme Court has handed down a unanimous ruling on the exact interpretation of the last integration to the implementation act of EU anti-discrimination legislation, the Equality Act of 2010, in connection with the distribution of the burden of proof in employment cases. At the same time the court has clarified and confirmed previous decisions in the field.
La sentenza Royal Mail Group Ltd (Respondent) v Efobi (Appellant) [2021] UKSC 33 tratta il caso del signor Efobi, nato in Nigeria, postino di Royal Mail, che, avendo qualifiche in informatica, aveva presentato senza successo domanda per oltre 30 posti in ruolo manageriale o tecnico all’interno dell’azienda tra dicembre 2011 e febbraio 2015. Nel giugno 2015, il signor Efobi ha presentato ricorso all’Employment Tribunal sostenendo che il rifiuto delle sue domande era il risultato di una discriminazione diretta o indiretta a causa della sua razza (ha anche lamentato molestie razziali e di vittimizzazione, domande queste parzialmente accolte).
L’Employment Tribunal ha ritenuto non provati i fatti di discriminazione diretta. L’Employment Appeal Tribunal ha accolto in seconda istanza affermando che la modifica dell’articolo 136(2) della legge del 2010, da “where … the complainant proves facts” a “if there are facts from which the court could decide”, aveva alleggerito la posizione del lavoratore quanto all’onere della prova dei fatti fondanti la discriminazione (“the employment tribunal had wrongly interpreted section 136(2) of the 2010 Act (quoted at para 5 above) as imposing an initial burden of proof on the claimant”). La Royal Mail Group Ltd ha impugnato davanti alla Corte d’Appello, che ha negato la correttezza, in base a un suo già formato orientamento, dell’interpretazione della modifica del testo legislativo statuita dall’Employment Appeal Tribunal. La Corte Suprema in ultima istanza ha respinto all’unanimità il ricorso del signor Efobi.
Due sono le questioni in diritto che vengono trattate dalla Supreme Court UK: se un cambiamento nella formulazione dell’Equlity Act 2010 abbia modificato l’onere della prova nei casi di discriminazione sul lavoro e se l’omettere di rendere disponibile una prova (mancata citazione di un testimone diretto) può essere un elemento di valutazione a sfavore del datore di lavoro e di quale significato. Nell’esame delle due questioni vengono esplicitati alcuni passaggi della valutazione della prova sul piano logico giuridico e alcuni principi che possono essere estesi a quelle più generali della ripartizione degli oneri di prova in base alle direttive UE (di cui l’Equality Act 2010 oggetto di esame costituisce attuazione).
In merito all’onere della prova la Corte ritiene che sia la legislazione precedente, Race Relations Act 1976, sia il successivo Equality Act del 2010 abbiano previsto un procedimento di accertamento della discriminazione a struttura bifasica.
La prima fase è circoscritta alla valutazione della prova dei fatti allegati dal lavoratore, se la valutazione è negativa il procedimento si chiude. La seconda fase ha ingresso se la valutazione è positiva e sono accertati fatti che autorizzano ad affermare che, in assenza di una spiegazione adeguata, è stato commesso un atto illecito di discriminazione. Nella seconda fase l’onere della prova si sposta sulla esistenza di una lecita giustificazione alla discriminazione accertata.
Richiamando diffusamente le precedenti pronunce delle Corti d’Appello, la Corte Suprema evidenzia che questa costruzione bifasica, che attiene al profilo logico giuridico della valutazione e non implica scissioni temporali, era già un consolidato giurisprudenziale, così come l’inesistenza di limiti alla valutazione complessiva di tutti gli elementi di prova portati dalle parti e afferma che la modificazione nella formulazione letterale ha avuto la finalità di rendere la disposizione aderente a questa elaborazione giurisprudenziale (“so as more clearly to reflect the way in which they had been interpreted by the courts”). Non vi è dunque alcun mutamento nella ripartizione degli oneri di prova, l’indicazione “if there are facts from which the court could decide” senza più riferimento specifico all’onere della prova è diretto solamente a sottolineare che tutti gli elementi significativi possono e devono essere valutati indipendentemente dalla parte che li ha prodotti, compresi quelli che, essendo diretti a confutare esistenza o significato di quelli allegati dal lavoratore, appartengono alla prima fase del procedimento di valutazione, benché introdotti dal datore di lavoro.
Rimane quindi immutata la ripartizione dell’onere della prova, che vale quale regola di giudizio quando vi sia incertezza sui fatti allegati, e che nella prima fase grava sul lavoratore (“This means that the claimant has the burden of proving, on the balance of probabilities, those matters which he or she wishes the tribunal to find as facts from which the inference could properly be drawn (in the absence of any other explanation) that an unlawful act was committed”). E in linea di diritto non vi è alcun ostacolo a che il Tribunale possa respingere la domanda quando ne è evidente l’infondatezza senza dare ingresso alle prove dedotte dal datore di lavoro (“There is, however, nothing in section 136(2), any more than there was in the old provisions, which prohibits the tribunal as a matter of law from dismissing the claim after hearing the evidence adduced by the claimant if it is clear at that point that the claim is entirely hopeless”).
La Corte sottolinea che si tratta di principi e regole generali in materia di oneri di prova dei fatti allegati (“In civil cases (including employment disputes) the general rule is that a court or tribunal must find that something asserted by a party is a fact if, and only if, its truth is shown by sufficient evidence to be more probable than not”) e coglie anche l’occasione per una ulteriore precisazione sull’onere di giustificazione del datore di lavoro, una volta che la discriminazione sia stata provata.
Afferma la Corte Suprema che la modifica del testo legislativo è stata introdotta per rendere più chiaro il testo della disposizione in coerenza con l’elaborazione giurisprudenziale anche per ciò che attiene alla giustificazione. La modifica testuale da “an adequate explanation” o “a reasonable alternative explanation” in “any other explanation” ha lo scopo di rendere palese che non è richiesto che la giustificazione risponda a criteri di oggettiva accettabilità ben potendo anche essere disdicevole purché non connessa con la caratteristica protetta (“Those phrases were also apt to mislead in that they could have given the impression that the explanation had to be one which showed that the employer had acted for a reason which satisfied some objective standard of reasonableness or acceptability. It was, however, established that it did not matter if the employer had acted for an unfair or discreditable reason provided that the reason had nothing to do with the protected characteristic”).
Sulla seconda questione la Corte Suprema svolge un ragionamento del tutto astratto, stabilendo che dalla condotta processuale di una parte possono essere desunti elementi dimostrativi sul piano logico (inferences”) nella valutazione della prova dei fatti ma che questo è rimesso al giudice di merito nel contesto di un esame complessivo, senza che sia possibile stabile una regola di diritto (“So far as possible, tribunals should be free to draw, or to decline to draw, inferences from the facts of the case before them using their common sense without the need to consult law books when doing so”). La disamina è poi analitica quanto alle possibili deduzioni che avrebbero potuto essere tratte nel caso concreto dalla volontaria omissione della introduzione quali testi dei reclutatori del personale che si erano occupati delle selezioni dalle quali il lavoratore era stato escluso e viene negato che le critiche mosse all’Employment Tribunal per non avere considerato questa condotta siano fondate. In particolare viene osservato che non è stata data prova del fatto che i selezionati per i posti di lavoro fossero bianchi o di una origine etnica diversa da quella del sig. Efobi o che la conoscenza della etnia di quest’ultimo abbia influito sulle procedure di selezione e viene negato che queste circostanze potessero essere desunte dalla condotta processuale censurata, non sufficiente per poter affermare che fosse diretta a sottrarre alla conoscenza circostanze rilevanti, con la conseguenza che correttamente è stato ritenuto dall’Employment Tribunal che il caso non potesse superare il primo stadio di valutazione.
Alcuni passaggi della decisione possono suscitare perplessità per la loro ambiguità.
Innanzi tutto, le espressioni ai punti 15 e 28 che paiono fare riferimento a una rilevanza dell’intento soggettivo del datore di lavoro di discriminare il lavoratore.
Al punto 15 la Corte Suprema UK, spiegando la ragione per la quale è posto a carico del datore di lavoro l’onere di provare l’esistenza di una legittima giustificazione dell’accertata discriminazione, afferma che il ricorrente può cercare di offrire indizi ma non può dare una prova diretta della motivazione soggettiva del datore di lavoro (“A claimant can seek to draw inferences from outward conduct but cannot give any direct evidence about the employer’s subjective motivation”). Il senso di questo riferimento è però stemperato dal richiamo al precedente Glasgow City Council v Zafar [1997], nel quale Lord Browne-Wilkinson ha evidenziato che spesso la discriminazione che si fonda su un pregiudizio non è consapevole (“those who discriminate … do not in general advertise their prejudices: indeed they may not even be aware of them”), così chiarendo il riferimento in questione e ponendo sullo stesso piano di equivalenza e alternatività la volontà di discriminare e l’effetto di discriminazione del risultato perseguito considerato sul piano oggettivo. Ed analoghe considerazioni possono essere fatte sulle espressioni utilizzate al punto 28 in ordine alla natura della giustificazione, che deve essere data dal datore di lavoro, che viene imperniata sulle “ragioni” che hanno determinato l’atto/condotta discriminatoria, con un termine che può essere però letto, nuovamente, in senso oggettivo di risultato perseguito e non in senso soggettivo di volontà di discriminare (“Those phrases were also apt to mislead in that they could have given the impression that the explanation had to be one which showed that the employer had acted for a reason which satisfied some objective standard of reasonableness or acceptability. It was, however, established that it did not matter if the employer had acted for an unfair or discreditable reason provided that the reason had nothing to do with the protected characteristic”).
Qualche perplessità può suscitare anche la disamina in pura astrazione del valore indiziante della condotta processuale, che viene condotto in modo atomistico, su una base meramente di logica deduttiva, avulsa dal contesto di fatto rispetto al quale avrebbe potuto essere considerata di supporto. Si tratta di un aspetto che non può però essere compiutamente analizzato sulla base della sola sentenza. Infatti, l’impostazione speculativa, benché piuttosto forte nelle asserzioni, va inserita in un contesto ordinamentale a formazione giurisprudenziale, per casi decisi, ed è diretta da un lato a negare l’esistenza di una regola in diritto di interpretazione della condotta processuale, essendo la valutazione rimessa all’esito di un esame complessivo al Tribunale, dall’altro a spiegare l’insufficienza delle censure mosse alla decisione di quest’ultimo perché non persuasive sulla necessità di una diversa valutazione.
Anna Terzi, già Consigliera di Corte di Appello Trento