The prohibition of discrimination for atypical workers. Different but equal.
L’articolo riguarda il principio di parità di trattamento dei lavoratori atipici. L’Autrice sostiene, alla luce della giurisprudenza della Corte di giustizia, che il principio in parola è uno dei diritti fondamentali dell’ordinamento europeo, al pari del divieto di discriminazione sulla base del sesso.
The article deals with the principle of equal treatment of atypical workers. The Author argues, in the light of the case law of the Court of Justice, that the principle in question is one of the fundamental rights of the European legal order, as it is for the prohibition of discrimination on the ground of sex.
Il principio di parità di trattamento, com’è noto, costituisce il perno della disciplina europea dei lavori atipici, il più potente strumento di tutela previsto nelle disposizioni, per altri aspetti deboli, delle direttive 97/81/CE in materia di lavoro a tempo parziale, 99/70/CE sul lavoro a tempo determinato, 2008/104/CE sul lavoro temporaneo tramite agenzia. Perfino il divieto di abusi nell’utilizzo nel lavoro a tempo determinato ha una portata minore, non essendo, da un lato, dotato di efficacia diretta ed essendo stato interpretato con un certo disincanto, dall’altro, dalla stessa Corte di giustizia. Questo almeno fino alle sentenze più recenti, nelle quali si può intravedere una tendenza al rilancio delle misure antiabusive.
Non si intende, in questa sede, ripercorrere l’evoluzione della giurisprudenza della Corte di giustizia sul principio di non discriminazione dei lavoratori atipici, che ha già formato oggetto di riflessione in diversi lavori di chi scrive[1] e di altri autori e autrici[2].
Sembra invece più opportuno provare a discutere di come detto principio abbia contributo ad affiancare ai tradizionali fattori di discriminazione consacrati nel Trattato e nella Carta dei diritti fondamentali (sesso, età, orientamento sessuale, disabilità etc.) un fattore atipico, quello cioè fondato sulla titolarità di un rapporto di lavoro non standard. Che si tratti di un divieto di discriminazione diverso dagli altri, per il solo fatto che la sua enunciazione non è contenuta nelle fonti sopra citate, pare ormai insostenibile, alla luce delle osservazioni che si svolgeranno e della lettura della giurisprudenza, ormai alluvionale, della Corte di giustizia in materia.
In primo luogo, il fatto che si tratti di un fattore di discriminazione non solo (sperabilmente) transeunte, ma legato a una caratteristica oggettiva, che non rientra cioè nelle caratteristiche costitutive della personalità del soggetto tutelato, non pare da questo punto di vista rilevante. Nell’ambito delle fattispecie previste dall’art. 21 della Carta dei diritti fondamentali dell’UE, la cui elencazione è preceduta dalla locuzione “in particolare”, vi è un fattore come il “patrimonio” che condivide con la titolarità di un rapporto di lavoro atipico il carattere dell’oggettività[3]. Il fatto, poi, che si tratti di una caratteristica distintiva che può cambiare nel corso della vita è ancor meno rilevante, se si pensa a fattori come l’età[4] o le convinzioni personali[5].
Piuttosto che cercare di individuare profili che differenzino il divieto di discriminazione dei lavoratori atipici rispetto ai divieti “titolati”[6], occorrerebbe invece prendere atto di come le previsioni delle direttive 99/70/CE, 97/81/CE e 2008/104/CE abbiano aperto una “nuova stagione della legislazione antidiscriminatoria”[7], nella quale il divieto richiamato viene utilizzato come “contrappeso alla flessibilizzazione delle condizioni di lavoro e delle tipologie contrattuali”, avviando la transizione “verso un “nuovo” diritto del lavoro: il diritto dell’occupazione, il diritto dei lavoratori occupati e disoccupati, tipici e atipici, stabili e precari, che offra a tutti eguali opportunità di accedere a un lavoro e di conservarlo”[8]. Tra l’altro, come si è sostenuto in altra sede[9], le previsioni delle direttive arrivano anche dove i classici divieti di discriminazione non riescono ad operare, come è dimostrato dalla giurisprudenza della Corte di giustizia in materia (soprattutto) di contratto a termine. In assenza di un divieto espresso, infatti, sarebbe stato difficile censurare le differenze di trattamento tra lavoratori atipici e lavoratori standard applicando i divieti di discriminazione sulla base del sesso.
Dalla giurisprudenza in materia, invero, si ricava l’impressione che la Corte di giustizia tratti il divieto di discriminazione dei lavoratori atipici come un vero e proprio principio costituzionale dell’Unione europea[10]. In primo luogo, la Corte valorizza nelle sue sentenze più recenti il collegamento del divieto in parola con l’art. 31 della Carta di Nizza, che assicura a tutti i lavoratori, tra i quali senza dubbio rientrano gli atipici, il diritto a condizioni di lavoro sane, sicure e dignitose[11]. In secondo luogo, il principio di non discriminazione dei lavoratori atipici viene considerato un principio di diritto sociale particolarmente importante, che non può essere interpretato in modo restrittivo[12], al punto che la Corte lo considera espressione specifica del principio generale di uguaglianza[13], uno dei principi fondamentali dell’ordinamento eurounitario.
Alla luce di queste considerazioni, la giurisprudenza della Corte, ormai assestata, ha ampliato il più possibile la portata del principio[14], fino a lambire (e in qualche caso a superare) perfino le competenze in materia previdenziale degli Stati membri[15]. L’unico punto sul quale ancora non si registra nessuna apertura, quanto meno dal punto di vista teorico, è la possibilità di estendere il divieto alle differenze tra gli stessi lavoratori atipici, sul quale la Corte ha da tempo una posizione restrittiva, fondata sul fatto che la direttiva 99/70/CE censura le differenze tra i lavoratori a termine e i lavoratori standard[16]. Alla rigorosità dell’enunciazione, tuttavia, non sempre segue un’applicazione perfettamente coerente: là dove riscontra una differenza di trattamento tra lavoratori atipici, la Corte arriva a censurarla attraverso l’individuazione di un lavoratore comparabile che integri le caratteristiche del lavoratore standard, anche a prezzo di qualche piccola forzatura. È quanto è avvenuto, per esempio, nel caso Bruno e Pettini, nel quale, trattandosi di una differenza di trattamento tra lavoratori a tempo parziale di tipo verticale e orizzontale, la Corte ha effettuato la comparazione dei primi con i lavoratori a tempo pieno e indeterminato, diversamente da quanto era stato suggerito, in quella ipotesi, dall’avvocato generale[17]. Un simile “stratagemma” è stato più di recente utilizzato in una controversia nella quale si discuteva del regime applicabile, quanto alla durata massima, ai lavoratori a termine, che risultava differenziato a seconda del fatto che fossero a tempo pieno o a tempo parziale. In questo caso, la Corte ha valorizzato il diverso regime orario e ha di conseguenza applicato la clausola paritaria di cui alla dir. 97/81/CE, individuando il lavoratore standard nel titolare di un rapporto di lavoro sempre a termine, ma a tempo pieno[18].
Di fronte a una giurisprudenza così evoluta e ormai consolidata nei suoi tratti portanti, dovrebbe venir meno anche la cautela con la quale la dottrina ha finora guardato all’applicabilità diretta del principio di non discriminazione dei lavoratori atipici anche nei rapporti interprivati[19]. Proprio l’aggancio del divieto di discriminazione dei lavoratori atipici al generale principio di uguaglianza e l’interpretazione che ne ha dato la Corte di giustizia devono fornire il quadro di riferimento entro il quale muoversi. È precisamente alla luce di quella giurisprudenza che l’obiezione secondo la quale il divieto in parola sarebbe diverso dai classici divieti di discriminazione, alla fine, non regge. È vero che, pur avendo la struttura del divieto di discriminazione diretta, le deviazioni dalla regola consacrata nella clausola 4 della dir. 99/70/CE (così come alla clausola 4 della dir. 97/81/CE) possono essere giustificate, ma questa particolarità è condivisa con il divieto di discriminazioni sulla base dell’età. La Corte di giustizia, inoltre, ha dimostrato in moltissime occasioni di sindacare con particolare rigore le ragioni addotte dagli Stati membri per motivare le differenze di trattamento tra lavoratori atipici e lavoratori standard[20], come del resto ha fatto da sempre con le giustificazioni addotte rispetto alle discriminazioni indirette sulla base del sesso[21].
Il principio di parità di trattamento, inoltre, affonda le sue radici nelle esigenze di tutela collegate alla qualifica di lavoratore e lavoratrice atipici. Questo fattore di discriminazione, infatti, come già sostenuto in altra sede, ha in comune con gli altri il fatto di segnare la persona che lo possiede con uno stigma sociale che incide sulla sua dignità; da questo punto di vista, l’inclusione del diritto a non essere discriminato sulla base della tipologia contrattuale tra i diritti fondamentali dovrebbe (finalmente) essere affermato a chiare lettere.
Cristina Alessi, prof.ssa ordinaria dell’Università di Brescia
* Il testo riproduce, con lievi modifiche, una parte del saggio Il divieto di discriminazione dei lavoratori a termine: il dialogo recente tra Corte di giustizia e corti nazionali, in M. Aimo, A. Fenoglio, D. Izzi, a cura di, Studi in memoria di Massimo Roccella, ESI, 2021, 373 ss.
[1] In particolare si rinvia ad Alessi, Borelli Segmentazione del mercato del lavoro e discriminazioni, in Barbera, Guariso , a cura di, La tutela antidiscriminatoria. Fonti, strumenti, interpreti, Giappichelli, 2019, 271 ss; Alessi, Il principio di non discriminazione nei rapporti di lavoro atipici: spunti dalla giurisprudenza della Corte di giustizia, in Bonardi, a cura di, Eguaglianza e divieti di discriminazione nell’era del diritto del lavoro derogabile, Ediesse, 2017, 99 ss.
[2] Aimo, Il lavoro a termine tra modello europeo e regole nazionali, Giappichelli, 2017, spec. 63; Corazza, Il lavoro a termine nel diritto dell’Unione Europea, in Del Punta, Romei, a cura di, I rapporti di lavoro a termine, Giuffrè, 2014, 1 ss.; Zappalà, La tutela della persona nel lavoro a termine. Modelli di regolazione e tecniche di regolamentazione al tempo della flexicurity, Giappichelli, 2012, spec. 118 ss.
[3] Questo per restare alla Carta dei diritti fondamentali dell’UE; l’art. 3 della nostra Costituzione include tra i fattori che non possono essere utilizzati per differenziare il trattamento dei cittadini le “condizioni personali o sociali”.
[4] Si v. Militello, Strazzari, I fattori di discriminazione, in Barbera, Guariso, a cura di, op. cit., 140 ss.; Bonardi Le discriminazioni basate sull’età, in Barbera, a cura di, Il nuovo diritto antidiscriminatorio. Il quadro comunitario e nazionale, Giuffré, 2017, 125 ss.
[5] Si v. Aimo, Le discriminazioni basate sulla religione e sulle convinzioni personali, in Barbera, a cura di, op. cit., , 43 ss.2007; Militello, Strazzari op. cit., 128 ss.
[6] Come fa Bell, The principle of equal treatment: widening and deepening, in Craig, de Búrca, eds., The evolution of EU law, Oxford University Press, 2011, 624 ss.
[7] Così Barbera, Il nuovo diritto antidiscriminatorio: innovazione e continuità, in Barbera, a cura di, op. cit., XIX
[8] Sono ancora parole di Barbera, op. ult. cit., XXIV. Si v. anche Giubboni, La protezione dei lavoratori non-standard nel diritto dell’Unione europea, in RGL, 2011, I, 270 ss , che sottolinea la funzione di realizzazione di obiettivi di inclusione sociale connessa ai divieti di discriminazione dei lavoratori atipici.
[9] Alessi, Flessibilità del lavoro e potere organizzativo, Giappichelli 2012, 112 ss.
[10] Alessi, op. ult. cit., 115.
[11] Si v., in relazione al lavoro tramite agenzia interinale, CGUE 14 ottobre 2020, C-681/18, JH, punto 54 della motivazione.
[12] Si v. CGUE 17 marzo 2021, C-652/19, Consulmarketing, punto 50 della motivazione.
[13] Aimo, Il lavoro a termine…, cit., 66. Nella giurisprudenza della Corte si v., tra le più recenti, CGUE 25 luglio 2018, C-96/17, Vernaza Ayovi, punto 32 della motivazione, che si riferisce alla “giurisprudenza costante della Corte”.
[14] Anche questo aspetto è stato approfondito in molti lavori. Si vv., tra gli altri, Alessi, Borelli, op. cit;, Alessi, Flessibilità del lavoro…, cit., 144 ss; Aimo, Il lavoro a termine…, cit., 63 ss.; Corazza, Il lavoro a termine…, cit., 5 ss.
[15] Si v. CGUE 10 giugno 2010, C-395/08 e 396/08, Bruno e Pettini, in RIDL, 2010, II, 536 con nota di Premoli; CGUE 22 novembre 2012, C-385/11, Elbal Moreno; CGUE 5 giugno 2018, C‑677/16, Montero Mateos, punto 50 della motivazione.
[16] CGUE 22 giugno 2011, C-161/11, Vino II, punto 28 della motivazione.
[17] CGUE 10 giugno 2010, C-395/08 e 396/08, Bruno e Pettini, cit., sulla quale si v. Alessi 2010; Aimo 2017, 65 ss.
[18] CGUE 3 ottobre 2019, C-274/18, Minoo Schuch-Ghannadan.
[19] In questo senso Aimo, Il lavoro a termine…, cit., 66 ss., che sottolinea come il percorso svolto finora dalla Corte sia importante, ma debba essere seguito da un “più articolato percorso argomentativo, ancora tutto da scrivere”. Sul punto si v. anche Zappalà, La tutela della persona, cit.,165 ss.
[20] Si v., ad esempio, CGUE 3 ottobre 2019, C-274/18, Minoo Schuch-Ghannadan, spec. punti 39 e 40 della motivazione; CGUE 16 luglio 2020, C-658/18, UX.
[21] Izzi; Barbera, Principio di eguaglianza e divieti di discriminazione, in Barbera, Guariso, a cura di, op. cit.,, 59 ss.